Disturbi alimentari e richiesta di aiuto: dalla negazione alla consapevolezza
I disturbi alimentari appaiono, fra le varie forme di disagio psicologico, quelle fra le più insidiose perché vissuti inizialmente non come problematici ma come conferma e sostegno della propria identità e autostima. Può essere difficile per amici e familiari intervenire appropriatamente in assenza di una richiesta di aiuto; il passaggio dalla negazione alla consapevolezza del problema è un processo multideterminato e mutevole nel tempo.
I disturbi alimentari appaiono fra i disagi psicologici più insidiosi per chi ne soffre e dei veri e propri enigmi per amici e familiari.
Questi problemi infatti sono vissuti inizialmente come del tutto egosintonici dalle ragazze che li manifestano: sia nell’anoressia che nella bulimia il controllo del peso e dell’alimentazione sono mezzi per sostenere la propria autostima e un illusorio senso di identità.
Chiedere aiuto significa arrivare ad avere consapevolezza del problema e riconoscere la propria incapacità di controllarlo, un percorso non semplice né lineare.
Una Gronuded Theory sulla richiesta d’aiuto nei disturbi alimentari
Uno studio qualitativo recentemente pubblicato negli USA (Schoen, E.G., et. al., A Retrospective Look at the Internal Help-Seeking Process in Young Women With Eating Disorders, Eating Disorders: The Journal of Treatment & Prevention, 2012, 20,1,14-30) ha indagato, mediante la metodologia della Grounded Theory, quali fossero, per un gruppo di studentesse con diagnosi di disturbi alimentari, i fattori che le avevano portate a formulare un richiesta d’aiuto.
Dai risultati emersi il passaggio dalla negazione alla presa di consapevolezza del problema sembra essere un processo non puntuale ma mutevole nel tempo e multideterminato, influenzato da vari fattori come i feedback ricevuti dall’esterno, il sopraggiungere di incidenti o complicanze fisiche, la più generale predisposizione a rivolgersi ai servizi di salute mentale e l’esito di eventuali precedenti contatti con tali servizi.
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Paura di perdere il controllo e richiesta d’aiuto
I risultati dello studio di Eva Schoen e colleghi sembrano accordarsi con quanto sostenuto da Riccardo Della Gave (Anoressia nervosa: i fatti. Positive Press, Verona, 1996); se inizialmente infatti i disturbi alimentari sono strategie egosintonicamente efficaci al mantenimento della propria autostima, col progredire del calo ponderale si instaurano pensieri ossessivi riguardo al cibo e al peso associati ad un’intensa paura di perdere il controllo su di sé: il disturbo non è vissuto più come una scelta ma come una malattia.
La disponibilità a formulare un richiesta d’aiuto avverrebbe con più probabilità a questo punto là dove complicanze fisiche (insonnia, affaticamento, vertigini etc.) e la preoccupazione degli altri per esse evidenzierebbero un tradimento del corpo che sfugge al proprio controllo e pretesa di perfezione rivelandosi inadeguato e oggetto non più di ammirazione ma di inquietudine per gli altri.
Uscire dalla gabbia dei disturbi alimentari
La disponibilità a chiedere aiuto nei disturbi alimentari sembra quindi essere quasi assente nella fasi iniziali quando il problema è ancora gestibile e egosintonico, ma presente solo nel momento in cui il comportamento alimentare e i pensieri che lo sostengono sfuggono al proprio controllo e iniziano ad esser vissuti come una “gabbia” (Bruch H., La gabbia d'oro. L'enigma dell'anoressia mentale, Roma, Feltrinelli, 2003) e non più come una scelta.
E’ importante, in tal senso, intervenire tempestivamente per evitare la cronicizzazione del problema.
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