Psicologia degli attacchi terroristici
Non diversamente da coloro che hanno compiuto grandi genocidi del secolo scorso, anche chi milita fra le frange del terrorismo spesso lo fa con sentimenti di “ordinaria” ubbidienza a un’organizzazione di cui si sente semplice ingranaggio. La “banalità” del male della nostra epoca.
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Dall’11 settembre in poi il terrorismo è divenuto una minaccia con cui le società occidentali hanno iniziato a far ei conti ordinariamente, modificando anche alcuni aspetti della vita economica e sociale e della gestione della sicurezza pubblica.
Psicologia del terrorismo e nuove tecnologie
Ci si chiede spesso chi siano coloro che militano fra le frange delle organizzazioni terroristiche e cosa li spinga a commettere atti che spesso determinano anche la morte dello stesso attentatore. Lascia stupiti sapere che non di rado si tratta di persone molto giovani, apparentemente integrate nelle consuetudini della società occidentale quando non addirittura, in qualche caso, native di essa.
Secondo gli studi condotti in merito, uno dei più potenti strumenti per reclutare giovani, spesso adolescenti, è proprio rappresentato dal simbolo del capitalismo occidentale: internet. È attraverso la rete infatti, e in particolare i social network, che queste organizzazioni riescono ad attrarre, sedurre e indirizzare i giovani, spesso lasciati troppo soli nel confrontarsi con le insidie del web, un mondo virtuale parallelo a quello concreto dove è fin troppo facile rimanere ammaliati da ideologie e movimenti controtendenza, che gridano al complottismo e propagandano posizioni contrarie al mainstream rivendicando così diritti e riconoscimenti per quelle minoranze che in tale mainstream non trovano né riconoscimento né appartenenza.
È infatti proprio il sentimento di appartenenza e di forte identità che da questa deriva che fa inconsciamente presa su quei giovani e giovanissimi che si trovano reclutati fra le frange del terrorismo. Un “lavaggio del cervello” insomma che fa presa soprattutto nelle menti di coloro che vivono una crisi identitaria non solo dovuta alla giovane età, ma anche dalla provenienza da frange marginalizzate della società civile.
Un problema questo che non riguarda solo le persone immigrate, ma che trova in queste i più pericolosi fenomeni di radicalizzazione specie in quei contesti sociali, si pensi ad esempio a quello francese, dove gli immigrati, pur essendo presenti sul territorio da generazioni, vivono ghettizzati e isolati rispetto al resto della società denunciando il fallimento di una reale integrazione multiculturale.
Psicologia del terrorismo e fenomeni di gruppo
Quel che più muove la mente di una persona, specie se giovane, ad aderire a movimenti di stampo terroristico non è, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, una franca e reale propensione per questa o quella ideologia religiosa (Reicher e Haslam, 2016).
Lo sanno tristemente molto bene coloro che professano la religione musulmana e che risultano essere fra le prime vittime del terrorismo islamico (cosa di cui noi occidentali ci dimentichiamo troppo spesso).
Il terrorismo, sia esso di matrice religiosa o politica non fa differenza, attrae i suoi militanti perché offre un sistema compatto, rigido e certo di regole che definiscono un’appartenenza sociale forte per i suoi membri, un’appartenenza dalla quale deriva un riconoscimento identitario in cui una persona, con fragilità o carenze in tal senso, può derivare autostima e senso di valore personale.
Non va dimenticato oltretutto che è proprio in gruppo che le persone attivano più facilmente quei fenomeni di disimpegno morale che le giustificano a compiere atti esecrabili che normalmente non commetterebbero.
Si tratta di un fenomeno umano già ampiamente documentato negli esperimenti di psicologia sociale degli anni ’60 e ’70: in determinate circostanze gli esseri umani, spinti da potenti fenomeni di gruppo, possono arrivare a commettere atti atroci e riprovevoli nei confronti dei loro simili senza provare empatia né senso di colpa nei loro confronti (Zimbardo, 1972; Milgram, 1978).
Psicologia del terrorismo e paure “liquide”
Sebbene sia più rassicurante pensare che “noi” non diventeremmo mai come “loro”, questo rischio fa parte della natura umana, soprattutto delle paure che ci suscita il mondo post moderno. Scrive a questo proposito Zigmunt Bauman qualcosa che forse dovremmo tenere ben a mente per promuovere percorsi di pensiero complessi e meno semplificanti della realtà:
“Prima di Auschwitz (o dei gulag sovietici, o di Hiroshima…) non sapevamo quanto impressionante e terribile potesse essere la varietà del male commesso dagli uomini […]. In quel ‘prima’ ormai distante e difficilmente immaginabile non sapevamo nemmeno – e tutt’ora siamo riluttanti o addirittura rifiutiamo di ammettere, sebbene la conoscenza sia ormai abbondantemente disponibile – che la logica della vita moderna amplia radicalmente, fino a una scala inaudita, il bacino di reclutamento dei potenziali malvagi. […] La lezione più devastante di Auschwitz, dei gulag e di Hiroshima non è che potremmo anche noi essere rinchiusi dietro il filo spinato o nelle camere a gas, ma che, date le giuste condizioni, potremmo stare di guardia o spruzzare nelle condutture cristalli di sale bianchi; la lezione non è che una bomba atomica potrebbe abbattersi proprio su di noi, ma che, date le giuste condizioni, potremmo essere noi a lanciarla sulla testa degli altri.” (Bauman, 2006, pp. 83-84).
Bibliografia
Bauman, Z. (2006), Paura liquida, trad. it. Laterza, Bari, 2009.
Milgram, S., & Gudehus, C. (1978). Obedience to authority.
Reicher, S. D., & Haslam, S. A. (2016). Fueling Extremes. Scientific American Mind, 27(3), 34-39.
Zimbardo, P. G., Haney, C., Curtis Banks, W., & Jaffe, D. (1972). Stanford prison experiment: A simulation study of the psychology of imprisonment. Philip G. Zimbardo, Incorporated.