Solitudine ed età della vita
La solitudine non ha età… o forse sì! Secondo uno studio scientifico ci sono anni critici: la soglia dei 30 anni, quella dei 50 e infine quella degli 80 rappresentano le fasi del ciclo di vita in cui le persone sono più soggette a sentirsi sole. Vediamo perché.
Lo suggerisce uno studio pubblicato sul Journal International Psychogeriatrics: la solitudine è un’esperienza più spesso legata a determinate fasi del ciclo di vita: la soglia dei 30 anni, quella della mezza età e, infine, quella degli 80…
Tutti momenti in cui sono spesso in atto cambiamenti esistenziali che si ripercuotono sul proprio assetto identitario. Ecco che quindi, sia per ragioni oggettive che soggettive, ci si può sentire soli. Questo però non vuol dire che la solitudine sia qualcosa di necessariamente negativo, vediamo meglio perché.
Vissuti di solitudine ed età della vita adulta
Gli autori dello studio in questione – afferenti all’Università della California di San Diego - hanno reclutato un campione di 340 soggetti piuttosto eterogeneo rispetto all’età poiché comprendeva persone che andavano dai 27 ai 101 anni!
L’intento era infatti proprio quello di studiare come e con che intensità si manifesta il vissuto di solitudine nelle varie età della vita. I risultati sono apparsi piuttosto interessanti: al di là delle differenze individuali, infatti, vi sarebbe anche una significativa correlazione fra solitudine percepita e età della vita. I “picchi” di solitudine, infatti, non sarebbero avvertiti in momenti a caso, ma risulterebbero più probabili in determinate fasi dell’esistenza:
- a ridosso dei 30 anni, quando si fatica ancora a trovare un proprio posto lavorativo e affettivo nella società;
- alle soglie dei 50 quando sopraggiunge la mezza età e si fa una sorta di “bilancio” di ciò che si è raggiunto;
- e, infine, verso gli 80 anni cioè nell’età della vecchiaia quando ad un vissuto soggettivo può affiancarsi un’esperienza oggettiva di solitudine, sia per i ripetuti lutti che si affrontano a quest’età, sia per il forte isolamento sociale di cui molti anziani soffrono una volta usciti dal ciclo produttivo della vita lavorativa.
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Solitudine positiva o negativa?
La solitudine tuttavia non è necessariamente un’esperienza negativa, dipende dal tipo di esperienza soggettiva che se ne fa. La solitudine è negativa e costituisce un fattore di rischio per la salute mentale quando è percepita come stato di isolamento e abbandono.
Può rappresentare invece un’esperienza utile e feconda quando è vissuta con consapevolezza, come un momento di riflessione per adattarsi a un cambiamento in atto nella propria.
Il modo, positivo o negativo, in cui viene vissuta la solitudine durante le fasi del ciclo di vita può dipendere non solo dagli eventi esterni in sé stessi (“le cose che capitano” nella vita), ma anche e soprattutto da come noi interpretiamo e ci adattiamo a quegli eventi. E in questo giocano un ruolo importante sia le nostre prime esperienze di attaccamento affettivo, sia dai modi in cui riusciamo ad affrontare le sfide evolutive che la vita ci pone.
Solitudine e attaccamento affettivo
I modi con i quali tendiamo a legarci affettivamente alle persone per noi significative possono essere determinanti per la nostra capacità di stare soli senza sentirci abbandonati.
È importante aver potuto fare esperienze sane e sicure di attaccamento nei confronti dei propri genitori per poter instaurare relazioni affettive adulte in cui potersi sentire altrettanto sicuri anche in momenti di cambiamento esistenziale. Le persone affettivamente significative continuano allora a essere avvertite come presenze interne rassicuranti e stabili.
Se invece si ha avuto esperienza di figure di attaccamento rifiutanti o imprevedibili è facile che anche da adulti si tenda a non fare affidamento sugli altri, a non essere mai sicuri della loro disponibilità e del loro affetto o ad aspettarsi di venire irrimediabilmente rifiutati e allontananti (e, non di rado, si ricercheranno inconsapevolmente partner in grado di confermare queste previsioni).
Queste aspettative negative minano la fiducia nei confronti degli altri e rendono la persona più vulnerabile a sentirsi abbandonata e priva di legami affettivi veramente affidabili in momenti di difficoltà. Ne deriverà più facilmente un vissuto di abbandono o isolamento.
Solitudine e sfide evolutive adulte
La solitudine rappresenta anche un modo mediante il quale affrontare le sfide evolutive che la vita naturalmente ci pone. Erik Erikson fu uno dei primi psicologi a evidenziare quanto: nel corso di tutta la nostra esistenza, tutti noi siamo chiamati ad attraversare “stadi di sviluppo”, tappe evolutive che ci impongono di rimaneggiare il nostro assetto identitario, adattarci a nuove richieste dell’ambiente sviluppando o consolidando determinati aspetti della nostra personalità.
Il merito di Erikson è stato di aver posto in luce quanto la crescita psicologica e l’adattamento al cambiamento rappresentino elementi che contraddistinguono tutta la vita umana e non si limitano alla sola età dell’infanzia-adolescenza.
Non per nulla Erikson identificava alcuni specifici compiti evolutivi dell’età adulta:
- consolidare la propria identità per poter sviluppare legami di intimità con altre persone;
- impegnarsi in una vita produttiva in cui perseguire mete e scopi da realizzare (lavorativi, generativi ecc);
- e infine, a partire dalla mezza età, poter provare un senso di soddisfazione nel guardare indietro alla propria vita; se questo non è possibile, sopraggiungono vissuti di disperazione e impotenza.
Non è un caso dunque che le età della solitudine individuate dai ricercatori di San Diego corrispondano alla transizione dalla prima alla seconda età adulta (la soglia dei trent’anni) e alla soglia dei 50 anni in cui si iniziano a fare i primi bilanci.
Una solitudine sana come utile momento di ritiro in sé stessi sembrerebbe funzionale ad adattarsi alle nuove sfide della vita, mentre un senso di abbandono, vuoto, isolamento spesso coincide con una sostanziale difficoltà ad andare avanti, a fare progetti, la persona può sentirsi bloccata, incapace sia di tornare indietro che di andare avanti. Il vuoto interiore è infatti uno dei vissuti più frequenti di disagio psicologico nelle persone che accedono a una consulenza psicologica.
Solitudine ed età della vecchiaia
La vecchiaia, quella che nella ricerca veniva identificata con la soglia degli 80 anni (cosa che, in una popolazione che non invecchia prima dei 75 sembrerebbe al passo coi tempi) sembra rappresentare caratteristiche peculiari.
In questa fase pesano spesso alcuni elementi che rendono oggettive, e non solo soggettiva, la solitudine: si perdono persone care, i lutti che si affrontano sono molteplici per coloro che vivono fino ad un’età avanzata e, parallelamente, si hanno meno energie fisiche e mentali per partecipare alla vita sociale e familiare, la vita lavorativa è pero lo più chiusa alle proprie spalle.
È importante invece che la senescenza non coincida con un isolamento sociale e che tanto le famiglie quanto la società investano energie e risorse per coinvolgere gli anziani in un invecchiamento attivo.
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