Il sessismo nel mondo dell’informazione: intervista al collettivo GiULiA
Titoli di stampa oltre ogni decenza, commenti e critiche a pioggia sui social offensivi e discriminatori. Il linguaggio mediatico feroce rivela tutto l’odio che la nostra società riversa sulle donne.
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Donna, Odi et amo: l'informazione è sessista?
Lo aveva già sottolineato Oriana Fallaci che “il nostro è un mondo fabbricato dagli uomini per gli uomini, In una dittatura così antica da estendersi perfino al linguaggio. Si dice uomo per dire uomo e donna, si dice bambino per dire bambino e bambina, si dice figlio per dire figlio e figlia”. Sono stati innumerevoli e ampi i passi per prendere le distanze da quel tipo di società ignorante e sessista.
Le cadute, però, ancora abbondano. Troppi fatti sembrano riportarci al tempo in cui l'informazione in rosa era gravemente rabbuiata da casi di sessismo che non lasciano scampo a nessuna, adolescente o anziana che siano. Rimanendo sulla stampa italiana, dalla “gretina” Greta Thunberg alla “zecca” Carola Rackete fino alla senatrice Liliana Segre, che subiva oltre 200 offese e minacce al giorno.
Più recenti sono il body shaming su Giovanna Botteri e gli insulti a Silvia Romano, “colpevole” di essere stata rapita, costando allo Stato un riscatto, e di essersi convertita alla religione dei suoi rapitori.
Stessa sorte fu riservata alle due Simona, rapite in Iraq nel 2004. Di loro si disse di tutto: erano traditrici della patria, spie, addirittura incinte dei loro rapitori, mentre Silvia si sarebbe sposata con uno dei sequestratori, non si spiega altrimenti il suo cambio di fede. Non c'è stato uno stesso trattamento per i sequestrati all'estero di sesso maschile.
I social, ai tempi di Simona Parri e Simona Torretta, non li conoscevamo ancora ma già spuntavano come funghi le fake news. Ne abbiamo parlato con il collettivo Giornaliste unite libere autonome (GiULiA), nato nel 2011 con l’obiettivo di modificare lo squilibrio informativo sulle donne anche utilizzando un linguaggio privo di stereotipi e correttamente declinato al femminile. La rete di professioniste collabora con università e istituzioni per realizzare indagini e ricerche dedicate.
Informazione al femminile: un’aggressività di lunga data
Secondo gli ultimi dati presentati da Amnesty International, il tema dei diritti delle donne scatena discorsi d’odio nel 4,2% dei casi, immediatamente dopo i temi relativi a immigrazione e minoranze religiose. In un caso su tre (oltre il 30%), il tema genera contenuti offensivi e/o discriminatori anche gravi, pur se non costituenti discorso d’odio.
Nelle discussioni online monitorate è stato, inoltre, notato che quasi uno su due commenti e/o risposte degli utenti ai post o tweet sul tema, è offensivo o discriminatorio, e che molti degli attacchi sono di natura sessista.
Marina Cosi, vicepresidente di GiULiA, ricorda come la misoginia linguistica sia sempre stata presente nella comunicazione: “Temo non si possa parlare di recrudescenza, ma di consapevolezza di un’aggressione sempre accaduta e ora resa evidente da una maggior consapevolezza civile e resa accentuata dai social. Ossia dalla moltiplicazione della possibilità di “parola” che i nuovi strumenti consentono, nonché dalla loro cinica strumentalizzazione politica. Sono abbastanza anziana, ahimè, per ricordare bene quale fosse il commento di troppi dinanzi alle violenze a giovani donne: “Se stavano a casa non succedeva”. Ovviamente gli stessi non giudicavano violenze quelle subite dalle medesime giovani donne entro le mura domestiche. Ciò detto non voglio certo sottovalutare le parole violente, le minacce, il disprezzo subite da donne eccellenti che “si permettono di sollevare la testa”.
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Violenza domestica e disinformazione
Ma non ci sono soltanto i casi balzati alla cronaca, proprio la democratizzazione dell'informazione attraverso i social network, ha fomentato nuove forme di misoginia verbale.
Silvia Brena, aderente a GiULiA e responsabile di Vox-Diritti, primo osservatorio in Italia ad aver tracciato la mappatura dell'intolleranza nei confronti di migranti, musulmani, ebrei e donne.
Dalla rilevazione 4.0, che ha esaminato il periodo tra marzo e maggio 2019, emergono due costanti. La prima è che la categoria più colpita da odio verbale è quella delle donne. La seconda constata una correlazione tra i picchi di hate speech e i femminicidi.
È qui che nasce l'antico dibattito del ‘viene prima il parlato o la violenza fisica?’. “Lo sciame digitale è il terreno che, siccome sdogana il pensiero negativo in soggetti particolarmente problematici e patologici, porta alla legittimazione dell'agire – spiega Brena -. Il corpo viene insultato e poi violato: nella sua deriva peggiore, si collocano i femminicidi. D'altro canto, noi siamo le parole che costruiamo per raccontarci. I media soffiano sul fuoco dell'hate speech. Hanno la responsabilità di veicolare certi stereotipi che dicono “le donne aggredite se la sono andata a cercare”, frase tremenda, che leva la libertà all'individuo di agire come meglio crede nel mondo e la riveste di un'accusa infamante che è la stessa che era presente nel diritto prima della riforma, quando la violenza sessuale era considerata non punibile.
Giovanna Botteri e Silvia Romano, l’accanimento mediatico
Per il caso di body shaming, inflitto da Michelle Hunziker, co-fondatrice con Giulia Buongiorno di una onlus a difesa delle donne a Giovanna Botteri, “colpevole” di collegarsi da Pechino alle 4 di notte sempre con lo stesso abito, Brena spiega: “Per la mappatura, abbiamo fatto un lavoro di semantica che individua quali sono gli insulti più ricorrenti, ma anche le connotazioni delle frasi per capirne il costrutto, questi - è stato evidenziato - si concentrano sugli attributi fisici delle donne. Questo perché l'agganciarsi a tali attributi è tipico di una certa cultura maschile, dove tu non vedi l'individuo. E per le donne appare in modo lampante che il corpo viene negativizzato. È un corpo che viene o esaltato, o umiliato. Il body shaming non è nient'altro che una vecchissima usanza che, purtroppo, appartiene anche alle donne contro le donne. E, cioè attaccarsi agli attributi fisici per attaccare un'individualità”.
E per la giornalista, la mentalità stereotipata porta anche a far sì che in Italia si registri un tasso di occupazione femminile drammatico – siamo attorno al 35% - e un tasso di rappresentanza, nelle sfere alte, altrettanto drammatico”. Lo stereotipo è quello della donna troppo isterica in certi periodi perché “uterina”.
Le donne sembrano facili da odiare, forse perché loro odiano poco. Dacia Maraini ha recentemente dichiarato ad HuffPost: “Una cosa non riescono a perdonarle: che Silvia Romano non odi i suoi carcerieri. È un fatto che li scandalizza, li manda su tutte le furie. Perché loro odiano tutto...”