Il pregiudizio misogino? Duro a morire
La misoginia, letteralmente l’odio verso le donne, sarebbe un aspetto piuttosto radicato nella cultura occidentale e nei pregiudizi verso il genere femminile. Ma… non eravamo alle “quote rosa” e alle famiglie arcobaleno? Qualcosa non torna.
Dal greco misèō, "odiare" e gynḕ, "donna": misogini o, per dirla con Stieg Larsson, “Uomini che odiano le donne”. La saga di uno dei triller di maggior successo degli ultimi dieci anni viene tutta dalla Svezia.
E, come Larsson, altri autori dopo di lui hanno seguito lo stesso filone: gialli ambientati nei super moderni ed emancipati Paesi del nord Europa eppure così densi di violenza contro le donne.
E non è un’invenzione letteraria, lo chiamano il “paradosso nordico” e, in realtà, ci riguarda tutti perché nessun “femminismo di stato”, nessuna emancipazione calata dall’alto può bastare a riequilibrare il rapporto tra i sessi se non è all’interno della cultura ad essere messo in discussione il pregiudizio misogino. E come? Forse iniziando ad occuparsi, una volta tanto, degli uomini.
La misoginia e il “paradosso nordico”
Islanda, Finlandia, Norvegia, Svezia, Danimarca… Sono i Paesi del nord Europa più avanzati in materia di uguaglianza di genere riguardo a welfare, politiche occupazionali, educazione e partecipazione politica. Eppure sono anche quei Paesi dove si registrano i più alti tassi di violenza di genere e di violenza domestica.
Come spiegare questo dato? Forse, hanno ipotizzato alcuni, in questi Paesi le donne hanno una maggior consapevolezza dei propri diritti e si registra un più alto tasso di denunce? No, o per lo meno, questo non basterebbe a spiegare come mai in Svezia o nella modernissima Finlandia il tasso di violenze domestiche sia al 30%, mentre in paesi come l’Italia è intorno al 20-22%, o perché, stando alle statistiche che lo sesso Larsson diffonde nei suoi libri, il 45% circa delle donne sopra i 15 anni abbia subito almeno una volta violenza da parte di un uomo.
La misogina dunque, quella che è stata più brutalmente definita la “cultura dello stupro” (A.Ayres Boswell, Joan Z.Spade, Fraternities and collegiate rape culture, Lehigt University 1996), è dura a morire? Un sistema legislativo evoluto e all’avanguardia non dovrebbe rendere più sicura la vita per le donne e ridurre i reati a carico dei sex offenders?
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Femminismo di Stato e misoginia culturale
Il “paradosso nordico” trova un senso se ci si ferma un momento a guardare oltre le discriminazioni “visibili”, oltre i “dati” numerici che hanno il fine istituzionale di garantire la “parità” di diritti fra uomini e donne nella vita pubblica e privata.
Questo è, come sostengono molte autrici femministe, solo un aspetto della questione di genere definito non a caso “femminismo di stato” nella misura in cui lo Stato stesso, mediante leggi e riconoscimento di diritti civili, si fa istituzionalmente garante di una sostanziale parità fra uomini e donne.
La misoginia però, quella brutale “cultura dello stupro” citata prima (che trova molteplici espressioni in tutti quegli atteggiamenti oggettivanti nei confronti delle donne) risiede oltre le intenzioni del legislatore. Risiede nel tessuto sociale all’interno del quale avvengono i rapporti tra uomini e donne nella vita di ogni giorno.
Un retroterra culturale, quello dei Paesi del nord Europa, che da molti è stato indicato piuttosto arretrato, viziato di pregiudizi e di misoginia almeno tanto quanto paesi europei ancora piuttosto indietro nel riconoscimento “di Stato” della parità tra i sessi.
Anzi, l’ipotesi più accreditata per tentare di dare senso al “paradosso nordico” è che, la parità tra i sessi e l’emancipazione femminile sia stata “calata dall’alto” e quindi di fatto imposta ad una cultura ancora fondata, nella sostanza, su stereotipi, pregiudizi misogini e ideali “machisti”.
Gli alti tassi di violenza di genere registrasti nei paesi scandinavi andrebbero in tal senso interpretati come fenomeni reattivi, quasi vendicativi, nei confronti di una legislazione di Stato che sembra aver di colpo messo in discussione i capisaldi della cultura maschilista e quindi dell’identità maschile (basti pensare che, i pochissimi uomini che fruivano del congedo parentale appena varato in Svezia negli anni ’70, venivano accusati di non comportarsi da “veri” uomini) .
Pregiudizi e stereotipi di genere
Osserva acutamente Jean Bolen (Gli dei dentro l’uomo, Astrolabio, 1994) che in qualunque contesto sociale accade spesso che siano i gruppi di minoranza, per numero o per discriminazione, a rendersi più consapevoli delle dinamiche di potere. Per trovare strategie di adattamento in una condizione svantaggiata, le frange marginalizzate sarebbero portate a maturare una maggiore consapevolezza del funzionamento del contesto sociale in cui si trovano.
È quanto è accaduto alle donne nella storia del movimento femminista che ha messo in discussione i presupposti, i pregiudizi e valori della cultura patriarcale ricercando e rivendicando, per le donne, parità di diritti e, al tempo stesso, riconoscimento e rispetto per le differenze.
Non è storicamente accaduto nulla di simile per gli uomini che, da sempre in una condizione di vantaggio sociale, non hanno mai dovuto rimettere in discussione stereotipi e pregiudizi fondanti la propria identità di genere (per ogni donna costretta ad essere sottomessa c’è un uomo costretto ad essere “macho” e a reprimere aspetti emotivi o vulnerabili della propria personalità).
Una delle possibili conseguenze sembra quella violenza vendicativa che ritroviamo nei paesi più emancipati del nord Europa: uomini misogini che sembrerebbero denunciare un vuoto identitario, una difficoltà esistenziale a riconoscersi in un modello alternativo al “macho” stereotipato.
Sono rari i contesti di riflessione e di messa in discussione degli stereotipi di genere maschili se non quando la violenza e il disagio hanno già raggiunto espressioni drammatiche (vedasi la stimabile esperienza dei Centri per Uomini Maltrattanti in Italia). Eppure sembra che tutto questo sia oggi più che mai necessario a tutti i livelli della società: la misoginia e la violenza di genere non riguardano solo gli uomini (come autori di violenza ad esempio) o solo le donne (come vittime), ma entrambi in quella dinamica fra maschile e femminile che fonda la relazione con sé stessi e con l’altro sesso.
“Nessun uomo è tanto virile da non avere in sé nulla di femminile [...], sicché l'uomo nella sua scelta amorosa soggiace spesso alla tentazione di conquistare quella donna che meglio risponde al particolare carattere della propria femminilità inconscia; una donna, dunque, che possa accogliere senza difficoltà la proiezione della sua anima”. (Carl Gustav Jung, “L’Io e l’inconscio”, trad. it, Boringhieri, 2013, pp. 102 – 103)
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