Deep acting: i vantaggi del recitare sul posto di lavoro
Recitare sul posto di lavoro sarebbe la strategia vincente per andare d’accordo con i colleghi ed evitare il burnout. Vediamo in cosa consiste il deep acting.
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Uno studio pubblicato sul Journal of Applied Psychology a opera di un gruppo di ricercatori dell’Università dell’Arizzona (Gabriel & Daniels, 2015) evidenzia vantaggi e svantaggi di diversi tipi di atteggiamenti che i
lavoratori possono avere rispetto al ruolo lavorativo richiesto.
Esibire sorrisi forzati, mentre si cova indifferenza o risentimento, può essere logorante tanto quanto agire d’impulso senza “filtrare” le proprie emozioni in base al contesto.
Quella che gli Autori definiscono “recitazione profonda” sembra risultare il compromesso vincente: imparare cioè, come dei veri e propri attori, ad allineare i propri stati d’animo al ruolo che si sta impersonando.
Recitare per proteggere la propria indvidualità
Nel 1992 Gideon Kunda, sociologo statunitense, pubblicò un testo destinato a fare epoca nello studio delle organizzazioni. L’ingegneria della cultura, questo il titolo del suo libro, nel quale riportava i risultati di uno studio effettuato in un’azienda informatica americana rilevando quanto complesse e non scontate fossero le strategie mediante le quali dipendenti e collaboratori cercavano di trovare un possibile compromesso fra la cultura aziendale (veicolata spesso in termini apparentemente informali, ma implicitamente utilizzata come strumento di controllo) e la propria personalità individuale.
In altre parole: la pressione esercitata dall’azienda nel veicolare i valori della propria cultura sui dipendenti poteva creare in questi ultimi tutta una serie di difese allo scopo di proteggere la propria individualità. Chi reagiva con distacco e cinismo, chi riduceva il proprio ruolo a quello di un lavoratore “spersonalizzato” e chi semplicemente indossava una maschera facendo, letteralmente, buon viso a cattivo gioco.
In tutti questi casi, scoprì Kunda, potevano esserci conseguenze negative sul lavoratore, con rischio di esaurimento e burnout.
Studi successivi, in materia di psicologia delle organizzazioni, hanno evidenziato questa criticità non solo per i collaboratori di azienda, ma anche per coloro che svolgono professioni sanitarie e assistenza alla clientela, chiamati costantemente a regolare la proprie emozioni rispetto a quelle dell’utenza (Grandey et al., 2012).
Lo studio promosso da Allison Gabriel e colleghi dell’Università dell’Arizzona ha approfondito il concetto di recitazione sul posto di lavoro evidenziando diverse modalità con cui è possibile mediare fra i propri stati d’animo e le competenze relazionali previste dal proprio ruolo lavorativo. Non tutte le forme di “recitazione” sono uguali, con importanti differenze sulle motivazioni e la salute degli “attori”.
Recitare sul posto di lavoro: imitazione o identificazione?
Nella storia del teatro è nota una “disputa”, sebbene avvenuta in termini temporali differenti, fra due opposte concezioni del lavoro dell’attore: egli per adottare emozioni e caratteristiche del personaggio, deve utilizzare o mettere da parte le proprie?
Il filosofo illuminista Denis Diderot (Langres 1713-Parigi 1784) ne Il paradosso dell’attore (1830) sosteneva la necessità di una non identificazione dell’attore con il personaggio: l’attore doveva essere un osservatore “freddo”, un mero imitatore del comportamento esteriore del personaggio, i suoi personali sentimenti non erano altro che un elemento di “disturbo” nella recitazione.
Non fu di questo avviso, un secolo più tardi, Konstantin Sergeevič Stanislavskij (1863 – 1938), attore regista teatrale e insegnante russo Ne Il lavoro dell’attore su sé stesso (1938) egli sosteneva la necessità dell’identificazione dell’attore con il personaggio: non è sufficiente imitarne superficialmente tratti e comportamenti “esterni”, ma occorre identificarsi con le emozioni che lo connotano al fine di raggiungere
un’affinità fra mondo interiore dell’attore e quello del personaggio. Solo in questo modo la recitazione può risultare efficace e autentica e non una mera e semplice imitazione.
Gabriel e colleghi sembrano evidenziare che, anche nella più prosaica “recitazione” lavorativa (tutti devono adeguarsi a un ruolo che non prevede la spontaneità senza filtri dei rapporti privati), sarebbe Stanislavskij a stare dalla parte del benessere del lavoratore. Vediamo perché.
Dai “regualtors” ai “deep actors”
Il team di Gabriel e colleghi ha interpellato 2.500 lavoratori allo scopo di esaminare se e come proponessero, nei rispettivi ruoli lavorativi, una maschera più o meno distante dai loro effettivi stati d’animo.
Quattro le categorie emerse:
- A un estremo troviamo i cosiddetti “regulators”, coloro che indossano una vera e propria maschera, adottando una recitazione superficiale (più vicina ad una finzione) del ruolo da essi richiesto.
- All’estremo opposto si posizionano i “non actors”, coloro cioè che non sono in grado di mediare fra le proprie emozioni e le caratteristiche rischiaste dal proprio ruolo e rischiano così di essere fin troppo “trasparenti”, con potenziali danni per sé e per gli altri.
- Ai livelli intermedi troviamo i “low actors”, coloro cioè che alternano momenti di mera “finzione” a momenti in cui si sentono più in sintonia col ruolo.
- Infine, e sono quelli più interessanti, troviamo i “deep actors” (che riceverebbero il plauso di Stanislavskij), coloro cioè che, mediante una “recitazione profonda”, riescono a immedesimarsi nel ruolo lavorativo e percepire autenticamente gli stati d’animo complementari con esso. Il loro comportamento non suona falso o disonesto, perché lo hanno fatto proprio a livello profondo.
Recitazione profonda e benessere lavorativo
Queste diverse posizioni emozionali – evidenziano i ricercatori – sono sostenute da differenti motivazioni e hanno differenti ripercussioni sul benessere dei lavoratori.
I “regulators” risultano essere maggiormente esposti a burnout: la sensazione di dover costantemente recitare una parte, rende queste persone vulnerabili a depressione, esaurimento emotivo e problemi
interpersonali anche nella vita privata. Sono coloro che, nell’adottare questo tipo di strategia, sono più spesso mossi da motivazioni altrettanto superficiali come la necessità di ottenere vantaggi e benefici.
Queste persone, in altre parole, sembrano cercare di risolvere il loro rapporto con l’organizzazione facendo un uso che potremmo definire “strumentale” di sé stessi e degli altri. Azioni e comportamenti sono
funzionali a ottenere determinati vantaggi.
I “deep actors” al contrario risultano avere un maggior benessere lavorativo, meno conflitti fra stati interni e richieste esterne e maggior soddisfazione ed efficacia nelle relazioni professionali. Sono anche coloro che adottano determinati comportamenti motivati dall’intenzione di creare relazioni positive e costruttive con colleghi e clienti e preoccupazioni prosociali.
Sembra in altre parole che i lavoratori che adottano una “recitazione profonda”, immedesimandosi emotivamente nel proprio ruolo, percepiscano una convergenza, reale o potenziale, fra i propri interessi e quelli degli altri e impersonino il proprio ruolo animati da motivazioni più profonde e autentiche rispetto ai “regulators”.
Tutti sono chiamati, in misure e modi diversi, ad adeguarsi ad un ruolo lavorativo in funzione della natura e degli obiettivi del proprio lavoro. Questo porta a tenere un riserbo su alcuni dei propri pensieri o stati
d’animo e a separare un’area “privata” della propria emotività e personalità da un’area “pubblica” che è ciò che è utile condividere con colleghi, capi e clienti.
Ciò però non vuol dire necessariamente condannarsi a un perpetua e vuota finzione. Come suggeriscono i ricercatori, se animati da motivazioni profonde e autentiche, si possono rispettare i confini del proprio ruolo lavorativo in modo efficace e in linea con gli interessi propri e altrui.
Bibliografia
Diderot D. (1830), Il paradosso sull'attore, trad. it., Verona, Angelo Signorelli, 1993.
Kunda G. (1992), L'ingegneria della cultura, trad. it.,Torino, Edizioni di Comunità, 2000.
Gabriel A. & Daniels M.A. (2015), Emotional Labor Actors: A Latent Profile Analysis of Emotional Labor Strategies, Journal of Applied Psychology, 100(3): 863-79.
Grandey A., Foo S.C., Groth M. & Goodwin R.E. (2012), Free to be you and me: a climate of authenticity alleviates burnout from emotional labor, Journal of Occupational Health Psychology 17(1): 1-14.
Stanislavskij K.S. (1938), Il lavoro dell'attore su se stesso, trad. it. Roma–Bari, Laterza, 2014.