Sindrome della capanna: c’è chi preferisce rimanere a casa
Quella resistenza a riadattarsi alla normale vita sociale dopo un lungo periodo di isolamento, sia esso in carcere, in ospedale o fin anche a casa propria. Non accettiamo la fine del lockdown?
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Ne La linea verticale (2018), serie scritta e diretta da Mattia Torre, Luigi, il protagonista, si ritrova per molte settimane a convivere in una camera d’ospedale con altri compagni di stanza.
Fra questi Amir, l’unico a ottenere le dimissioni prima di lui, che al momento del commiato si scopre incredulo e piuttosto restio ad abbandonare i confini di quell’angusto e piccolo mondo, contrassegnato, certo, da limitazioni della libertà personale, ma anche dal rassicurante conforto di essere in qualche modo “al sicuro”. Ora lo attende invece il mondo là “fuori” dove a convivere con i rischi della malattia e delle proprie scelte si troverà da solo, nel bene e nel male.
La sindrome della capanna (o sindrome del prigioniero) è una temporanea difficoltà di riadattamento ai normali ritmi di vita dopo lunghi periodi di confinamento. Gli ospedali, come vedevamo, ma anche le carceri sono gli esempi più comuni. In verità anche la propria casa può rivelare di possedere un’insospettabile “attrattiva”, in barba a chi invocava la fine del lockdown…
La fine della quarantena... anzi no!
Alcune popolazioni delle zone rurali degli Stati Uniti, a causa degli inverni molto rigidi, sono costrette a optare per uno stretto domestico poiché le condizioni climatiche rendono proibitivi gli spostamenti. Da qui nasce l'espressione sindrome della capanna, che non identifica un disturbo psicologico definito ma una transitoria fase di passaggio in cui le persone possono sperimentare paura, ansia e resistenza a tornare alla “normalità”.
Secondo la psicologa spagnola Timanfaya Hernández, questo fenomeno potrebbe riguardare anche alcuni individui che in questo momento si ritrovano a uscire dalla “quarantena” e iniziare quella fase 2 contrassegnata dal graduale allentamento delle misure restrittive. Alcuni, continua Hernández, potrebbero non aver nessuna fretta di ripartire e, anzi, sentirsi più a proprio agio a rimanere ancora dentro le mura di casa. Perché accade questo?
Lockdown e psicopatologia
Il lungo lockdown dovuto alla pandemia da Covid-19 ha imposto importanti cambiamenti nelle vite lavorative, familiari e di relazione. Molte persone si sono ritrovate improvvisamente confinate a casa, in solitudine, senza appuntamenti sociali e lavorativi e, spesso, anche distanti dai familiari.
In alcuni casi questi elementi possono aver incontrato psicopatologie e disturbi psicologici preesistenti, attivando un circolo vizioso fra confinamento domestico e ritiro sociale. Ne sono un esempio alcuni disturbi d’ansia come la rupofobia o l'ossessione per la pulizia. Il “reale” pericolo epidemiologico può aver rinforzato ulteriormente questi disturbi e aver indotto alcune persone, in preda all’ansia e all’angoscia, a osservare le restrizioni governative in modo anche più prolungato del necessario.
Anche alcuni disturbi depressivi rischiano di subire un peggioramento in condizioni di quarantena aggravando il ritiro e l’isolamento sociale e sollecitando, nei casi più gravi, sensi di colpa depressivi e irrazionali per la cattiva sorte degli altri. Un ultimo esempio è rappresentato da quelle persone che hanno un disturbo paranoide della personalità, che già fondano la propria vita sul sospetto e il tentativo di difendersi da complotti ai loro danni.
In casi come questi, la fine del lockdown non aiuta a tornare agevolmente a una vita “normale” perché il lungo isolamento, unito allo stress causato dal rischio epidemiologico, può contribuire a rinforzare dimensioni psicopatologiche preesistenti che già portavano a un certo grado di rinuncia alle relazioni sociali.
La "nuova" normalità
Per motivi diversi, anche persone che non manifestavano dimensioni psicopatologiche possono avvertire una certa reticenza a uscire di casa.
In alcuni casi la quarantena ha rappresentato un’inedita opportunità per scoprire tempi e modalità di vita più dilatati e “a misura d’uomo”. C’è chi era in preda a una vita lavorativa estremamente frenetica ed è finalmente riuscito a concedersi un po' di tempo libero, dedicarsi a un hobby, recuperare il sonno arretrato...
Quando si esce da un ingranaggio, rientrarci può essere difficile. In questi casi si teme di non essere in condizione di mantenere quegli spazi di relax e cura di sé inaspettatamente assaporati durante la quarantena, di non avere alternative fra saltare di nuovo sulla giostra o rimanere a terra.
Ma c’è un aspetto, e lo sottolinea anche Hernández, che può riguardare trasversalmente tutti noi: da un certo punto di vista “restare a casa” era più facile, meno dispendioso e meno faticoso che uscire e confrontarsi con una normalità profondamente diversa da quella che avevamo lasciato.
Ci si confronta ora con la distanza sociale, l’uso delle mascherine, gli ingressi contingentati, l’assenza di molti negozi e punti di ritrovo. Nulla sembra essere più come prima e forse ci vorrà ancora un po' di tempo per riuscire a percepire in modo “attivo” queste nuove norme: non come limitazioni indotte dal virus ma, al contrario, come strategie alla portata di tutti noi per sconfiggerlo.