Il rifugiato nella sua Giornata mondiale
Il 20 giugno è la Giornata mondiale del rifugiato. Oggi gli italiani migrano per cercare nuove e più ghiotte opportunità, mentre altri popoli fuggono da situazioni difficili per sopravvivere. Cosa c'è dietro la scelta di un percorso pesante e doloroso e quali conseguenze psicologiche comporta
Il 20 Giugno si celebra la Giornata mondiale dei rifiugiati, promossa dall'Agenzia Onu per i rifugiati (UNHCR - The UN Refugee Agency).
Siamo purtroppo ormai abituati alle notizie che giungono dalle nostre coste più a sud e che raccontano di storie di miseria, paura e in alcuni casi di morte.
Cerchiamo di comprendere cosa ci sia dietro la scelta, a volte obbligata, di sfidare un viaggio tanto pericoloso e dall'esito incerto, con la paura che si può sempre essere rimandati indietro dopo aver speso tanti soldi; una decisione difficile ed estrema che non può essere raccontata solo attraverso un evento.
Gli effetti della guerra e i profughi
Gli effetti della guerra sui militari sono atroci e devastanti: la sola idea di essere responsabili di atti così violenti può traumatizzare fortemente una persona.
Per i civili le cose non vanno di certo meglio: massacri, stupri, torture, esecuzioni e restrizioni sono eventi che condizionano in maniera drammatica coloro che dovrebbero sentirsi liberi a casa propria.
Per fare un esempio, dagli studi del Department of Veterans Affairs degli Stati Uniti sulla guerra in Bosnia è emerso che il 25% dei civili ha iniziato a soffrire di disturbo post traumatico da stress, con conseguenze gravi sulla vita presente e futura.
Si comprende bene quindi che la condizione del profugo che scappa non è certo semplice: si fugge da un luogo di violenza, ma non si sa come e dove si verrà accolti, eppure sembra tutto meglio rispetto a ciò che ci si lascia alle spalle.
Le storie di queste persone che cercano rifugio mettono in luce una grande speranza e ci trasmettono una forza interiore che li spinge a credere che non tutto sia perduto. Eppure ciò che li attende non è facile: vivere con il desiderio di un ritorno che non si si se e quando potrà avvenire, affrontare una vita precaria, sentirsi sempre un estraneo in casa d'altri e il malessere psicofisico che tutto questo comporta.
Senza contare che le gravi conseguenze psicologiche che patiscono i civili in patria non restano a casa quando si è in fuga. La situazione fortemente stressante del profugo, che si combina alla storia individuale, porta quindi spesso a depressione, disturbi del sonno, ansia e patologie su base emotiva.
La richiesta d'asilo è pertanto solo un primo passo per una vera accoglienza che comunque rappresenta una sfida anche per i paesi ospitanti.
Un progetto musicale per i bambini profughi
Un'esperienza molto interessante è quella che vede come capofila l'associazione Materia Prima e che prende il nome di "Music and Resilience": si tratta di un progetto di cooperazione internazione in collaborazioni con partner libanesi e palestinesi per usare la musica all'interno di campi profughi.
L'associazione si occupa primariamente di formare operatori specializzati sull'utilizzo della musica come strumento psico-educativo in grado di veicolare, sostenere e sviluppare risorse personali.
Il progetto si concentra in modo particolare di bambini e adolescenti che sono nati in contesti di guerra, cioè in condizioni fisiche e psicologiche traumatiche e all'interno di una vita restrittiva come quella del campo.
La musicoterapia viene quindi considerata come strumento di prevenzione all'isolamento e alla deprivazione culturale attraverso programmi di scambio e di apprendimento musicale.