La Guerra Dentro, le emozioni dei soldati che la vivono
Intervista a Barbara Schiavulli, giornalista inviata di guerra freelance autrice de “La Guerra Dentro”, il suo ultimo libro che parla delle emozioni dei soldati in guerra: 10 racconti di persone reali al di là di stereotipi e pregiudizi.
Barbara Schiavulli è giornalista inviata di guerra freelance, si occupa soprattutto di Medio Oriente, ha scritto per la maggior parte dei quotidiani italiani e collaborato con Radio e Tv.
Ha vinto numerosi premi fra cui il premio Luchetta, Antonio Russo, Italian Women in The World e il premio Maria Grazia Cutuli. Nel suo lavoro unisce alla sua professionalità una non comune dose di passione, determinazione e coraggio con cui denuncia l’orrore della guerra, racconta le storie di quelle che sono le persone reali coinvolte, quegli aspetti che, nei freddi numeri dei bollettini di guerra e dei reportage ordinari, nessuno racconta.
“La Guerra Dentro” (Youcanprint Ed.) è il suo ultimo libro dove l’autrice propone questa volta la prospettiva di chi la guerra la fa e non la subisce: sono le storie di 10 soldati italiani che sono stati in missione all’estero e raccontano la guerra e le proprie emozioni.
Nei tuoi libri precedenti avevi sempre raccontato la guerra dal punto di vista dei civili, ma - come dichiari in altre interviste - eri stanca invece di raccontare dei militari italiani solo quando muoiono. Cos’è che ad un certo punto ti ha fatto maturare la decisione di cambiare prospettiva e di scrivere di chi la guerra la fa invece che di chi la subisce?
Perché credo nella completezza delle notizie. Non si può raccontare solo un aspetto della guerra. Per quanto io mi senta più vicina, e ami di più raccontare le storie di chi la guerra la subisce e che si trova a lottare per la propria vita, penso che sia doveroso raccontare anche chi la guerra la fa.
Che siano militanti o militari e non solo da un punto di vista operativo, ma anche da quello umano. Mi interessa quello che porta le persone a fare certe cose, a prendere decisioni, le reazioni e certi eventi.
Spesso i militari vengono considerati come un’entità unica che si muove in blocco e risponde solo ad ordini. Io ero sicura che grattando un po’ la superficie dei pregiudizi, delle certezze che ci circondano, delle ovvietà che vengono raccontate, si potessero trovare delle risposte a domande che ancora non ci eravamo posti.
Frequentando zone di guerra avevo bisogno di sapere, e ho pensato che lo avesse bisogno anche chi ama essere informato, chi erano queste persone che imbracciavano un fucile pronti a combattere per qualcosa.
Nel tuo libro si fa spesso riferimento al termine “teatro di guerra” per indicare il luogo dove fisicamente la guerra accade e dove la si vive sulla propria pelle; nei tuoi libri cerchi di trasmettere la realtà e la tridimensionalità di questi scenari opponendo ai freddi numeri, con cui spesso la guerra viene raccontata, le storie di persone e di vite reali. Cos’è per te la guerra?
È difficile spiegare la guerra in poche parole. Per me la guerra è più che altro un insieme di emozioni che non auguri a nessuno. La guerra è paura, è smarrimento, è perdita delle certezze, è perdita della speranza, perdita delle tue cose. La guerra è un fallimento dell’essere umano.
È la puzza della carne bruciata o di un corpo che si decompone. La guerra è il suono delle urla, dei pianti sommessi, dei respiri affannosi o dell’ultimo respiro. La guerra è quel momento in cui non si riconoscono più le persone che ci circondano che diventano capaci di qualsiasi cosa.
Ho imparato che le persone cambiano e quella possibilità che un uomo tranquillo si possa trasformare in un mostro, in qualche modo mi spinge ad usare il mio lavoro per capire. Anche per questo cerco sempre l’umanità in quello che mi circonda. Non c’è mai solo orrore, ma in guerra c’è anche coraggio, forza, eroismo, generosità, lotta per la vita, resistenza. E mi piace scoprirla.
Ma la guerra per me è anche lottare nel mio paese perché il giornalismo non venga considerato un optional. Abbiamo bisogno di conoscere i posti e i tempi nei quali viviamo. Credo che una persona informata sia una persona consapevole e un cittadino migliore.
Prima di iniziare a intervistare i soldati, cosa ti aspettavi sarebbe emerso dai loro racconti? Le testimonianze che hai raccolto ti hanno in qualche modo sorpresa? Chi hai trovato più difficile da intervistare?
Sapevo che non si sarebbero rivelati dei rambo sfegatati appassionati di guerra a tutti i costi e contro tutti. I fanatici ci sono dappertutto, ma devo dire che la maggior parte delle persone che ho incontrato sono state pacate, sincere, forse erano più sorpresi loro a sentirsi raccontare cose che non avevano detto prima neanche alle loro mogli.
È stato difficile intervistare il capitano delle forze speciali perché non era proprio abituato a parlare. È stato difficile ascoltare il ferito perché alla sofferenza non ci si abitua veramente mai. Ho amato devo dire il loro cameratismo, l’esserci gli uni per gli altri, volere a tutti i costi preservare il gruppo. Mi piacerebbe che questo fosse più vero nella nostra società.
La meditazione può essere un aiuto per i soldati in guerra?
"L'idea dell'uomo che non deve chiedere mai, la stiamo smontando. L'uomo che riconosce le proprie emozioni, è più forte, non più fragile" dice il capitano Isabella lo Castro, psicologa dell’esercito. Tu che idea ti sei fatta intervistando questi soldati? Hai riscontrato differenze fra i vari personaggi?
Le persone sono diverse a prescindere. Sono sicura che i dieci che ho intervistato non rappresentano tutta la varietà umana delle forze armate. Sono persone, con i loro difetti, i loro pregi, le loro aspirazioni. Persone che comunque in qualche modo si mettono in gioco, perché quando rischi la pelle, è quello che fai, al di là del tipo di persona sei.
Devo dire che ogni ruolo è netto nelle sue differenze, non sono spesso interscambiabili, un pilota abituato all’azione, alla velocità, all’impazienza quasi frenetica, non potrà mai essere un cecchino, che deve essere ponderato, quasi maniacalmente paziente e preciso.
Devo dire che se dovessi scegliere uno dei ruoli che ho raccontato, quello dell’artificiere mi ha particolarmente affascinato. L’idea che una persona ficchi le mani dentro ad una bomba, lo trovo di un coraggio inusuale.
Non per niente, una delle storie che prediligi è quella del Luogotenente Michele Olmetto, artificiere, nel suo racconto afferma: "Ho sempre dato del Lei alla bomba, perché si deve rispetto a ciò che può ucciderti". Un soldato che disinnescando un ordigno può salvare molte vite. Quanto i soldati la guerra la fanno e quanto anche la subiscono secondo te?
Dal punto di vista numerico, su 5000 mila soldati che vanno in guerra forse un quinto la fa veramente, tutto il resto è contorno per far lavorare quei cinquecento, non che un ruolo sia più o meno importante dell’altro. Serve l’uomo alla mensa come quello in infermeria. Questi però la guerra la subiscono più degli altri che invece hanno un ruolo attivo nel combattimento che uno si augura non avvenga mai.
Ma spesso accade, e non penso solo agli italiani, ma anche a tutti gli altri contingenti, e nel momento di un attacco o un’operazione, tutto cambia. Che duri cinque minuti o un’ora. In quel momento capisci la persona che sei, il soldato che sei stato addestrato ad essere, ma soprattutto l’uomo. Saranno i cinque minuti più lunghi della tua vita, ma saranno anche quelli da cui dipende la tua vita.
Un capitano delle forze speciali dice: "la mia compagna sa che sono un militare, ma non sa quello che faccio, si preoccuperebbe troppo". Nel libro emerge, con varie sfumature, questa particolare cesura che i soldati vivono fra lavoro e vita privata. A te, come inviata di guerra, cosa accade? Ad amici e familiari racconti del tuo lavoro mentre sei all’estero?
Per me è più facile perché per lavoro già racconto tutto quello che faccio. Ma ci sono stati momenti che non l’ho fatto subito perché non aveva senso preoccupare chi stava a casa. Ad esempio una volta è entrato un camion bomba nella hall del mio hotel a Baghdad. Sono morte 22 persone, io ero in stanza al 12 piano. Credevo venisse giù il palazzo all’inizio poi tutto è passato e l’unico pensiero era soccorrere i feriti e fare poi il mio lavoro.
Hanno cominciato a chiamarmi i telegiornali italiani, le radio, e io ho detto che mi trovavo ad un paio di km, che stavo bene. In quel momento, visto che non era successo niente, non aveva senso far venire un colpo ai miei o ai miei amici.
Se avessero tentato di rapirmi, se fossi stata aggredita, non l’avrei raccontato, i giornalisti non devono essere la notizia, a meno che ovviamente, non ci sia un fatto grave che sfugge al mio controllo.
Nel libro racconti anche molto di te, di come, una volta tornata da un periodo all’estero, ritrovi nei tuoi incubi notturni la tua “guerra dentro”; in che modo la scrittura ti è d’aiuto ad elaborare quelle emozioni, immagini e ricordi che ti porti dietro dopo essere stata inviata nei luoghi di guerra?
La scrittura per me è magia, io butto fuori tutto quello che posso. Le storie che non riesci a scrivere ti prudono dentro fino a quando non le sputi fuori.
Per fortuna sono una chiacchierona, se non scrivo, racconto, e se sono davvero troppo stanca, allora dormo, in genere mi prendo un paio di giorni quando torno da un posto difficile e stacco da tutto e tutti, doccia, divano, divano, doccia. Poi riaccendo il mondo.
L’unica frustrazione che mi rimane sempre è quella di non poter fare nulla per le persone che mi regalano le loro storie. Il mio compito è far sapere qui, non permettere che queste persone vengano dimenticate. So che questo è il mio contributo, ma so anche che non aiuta molto a risolvere i problemi delle persone.
“La guerra dentro” non è il tuo primo libro, ma è preceduto da altri come “Le farfalle non muoiono in cielo” e “Guerra e guerra”. Progetti o idee su prossimi libri?
Di progetti ne ho sempre tantissimi, intanto mi sono imbarcata nella creazione di Radio Bullets che con altri 20 colleghi cerchiamo di raccontare quello che non si legge più sui giornali italiani. La crisi del giornalismo italiano è spaventosa, e noi lottiamo per salvarlo e salvarci.
È faticoso ma entusiasmante creare qualcosa di nuovo, senza un soldo ma armati della nostra rabbia. Intanto però, sto finendo di scrivere un thriller di guerra perché volevo sfidarmi in qualcosa di diverso. È la storia di una ex reporter di guerra che si ritrova coinvolta in una serie di omicidi e avventure sulle quali dovrà far luce.
E poi, perché troppo dalla realtà non mi posso staccare, sto lavorando con un fumettista, ad una graphic novel sempre di guerra, che si svolge tra Afghanistan e Pakistan.
Ultima cosa, sto scrivendo una trilogia su tre storie di estremismo religioso che coinvolge ragazzi e le tre fedi monoteistiche, perché sembra che il radicalismo sia solo una degenerazione islamica e non è assolutamente vero, ma purtroppo questo è quello che ci passa la tv.
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