Costruzione sociale della realtà nel cinema: laureati e disoccupati?
Il cinema è uno dei mezzi attraverso i quali i media si fanno portatori di significati e valori su cui si fonda la nostra condivisa costruzione sociale della realtà. I film possono confermare o disconfermare questo sistema di attese condivise, ma a volte, come per la crisi dell’occupazione, sarebbe il caso di proporre delle alternative…
Il cinema con film come "Tutta la vita davanti" di Paolo Virzì (2008) o il più recente "Smetto quando voglio" di Sydney Sibilia (2014) sembra dipingere, con toni cinematograficamente apprezzabili senza alcun dubbio, una realtà, quella della crisi occupazionale dei laureati di oggi (e di ieri dato che il film di Virzì non è certo di ultima uscita) evidenziandone e sottolineandone i paradossi.
Una denuncia sociale che cerca un riscatto o un invito a rassegnarsi rinforzando una costruzione sociale della realtà che non lascia vie d’uscita?
La costruzione sociale della realtà e le storie da raccontare
Jerome Bruner (La mente a più dimensioni, Laterza, 2005) afferma che una storia vale la pena di essere raccontata quando viola una "canonicità attesa", quando cioè vi accade qualcosa che in qualche modo disconferma quelle che sono le attese e le aspettative su come va il mondo, su come accade ciò che accade.
Secondo le teorie costruttiviste, di cui Bruner si fa portatore nell'ambito della psicologia culturale, nell'analizzare ciò che accade non possiamo prescindere da quella che è la costruzione sociale della realtà, ovvero quell'accordo implicito e condiviso sui comuni significati da dare agli eventi e sulle norme sociali che li organizzano.
Noi tutti, prima ancora che a livello individuale, ci formiamo un'attesa, un'aspettativa su come va il mondo fondata sulle regole, le norme e i sistemi di significati della cultura in cui viviamo. C'è, in altre parole, un interscambio, una negoziazione bidirezionale fra l'individuo e il contesto sulle norme e i significati che assegniamo al reale.
Bene, una storia val la pena di essere raccontata, nel momento in cui la trama che la fonda racconta della violazione di queste attese su cui la nostra percezione individuale e sociale della realtà di fonda. Il cinema può giocare un ruolo importante nel sostenere o disconfermare queste attese. Da qui la sua responsabilità nel suggerire nuove trame a vecchie storie o nel confermare le attese più fosche.
Aspettarsi garanzie o delusioni da una laurea?
Lo scenario occupazionale di un neolaureato… Qual’era la canonicità attesa, l’aspettativa sociale su cui, fino ad alcuni decenni fa, si fondava il mondo del lavoro? Quello che la laurea fosse di per sé una garanzia per l’accesso ad un mondo professionale di maggior specializzazione e maggiormente “garantito”.
La crisi economica e sociale degli anni duemila ha ribaltato queste aspettative modificando quella costruzione sociale della realtà su ci si fondavano le attese dei neolaureati; tutto questo ha certamente fatto in qualche modo “storia”. Il cinema, in questo senso, ha colto i paradossi insiti nelle vicende di queste nuove generazioni di laureati raccontando di come, in barba all’agognato “pezzo di carta”, le porte dei call center – come nel film di Virzì – o della malavita – come nella pellicola di Sibilia – non vengano oggi risparmiate a nessuno.
Eh sì perché se si può essere laureati e impiegati in un call center, si può essere anche ricercatori universitari e convertirsi in un ben più redditizio smercio di amfetamine e se non si riuscisse ad evitare il carcere poco male: almeno lì si sarà economicamente al sicuro!
Perdere il lavoro, un'opportunità per cambiare
Come narrare una nuova storia?
Tanto vale rassegnarsi e prendere atto del fatto che la laurea è inutile finché il mondo intorno a noi non cambia rendendoci ciò che ci spetta? Forse il cinema, nel raccontare i paradossi dei laureati di oggi, rischia, mentre fa una seppur giusta denuncia sociale, di rinforzare un sistema di attese già fin troppo consolidate, invece di raccontare storie che le disconfermino. Forse il cinema può fare di più…
L’impressione è che, alla paradossale sottooccupazione di laureati ci si sia abituati da un pezzo, in un’Italia dove si fatica ad abbandonare l’idea del lavoro “garantito” per lasciare spazio ad una maggior imprenditorialità di sé stessi.
L’impressione è che se c’è qualcuno che vi riesce non faccia notizia abbastanza per avere diritto di cittadinanza fra quelle storie che invece varrebbe la pena che il cinema iniziasse a cercare e a raccontare.
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