Il corpo femminile come oggetto di consumo
Il corpo femminile nella pubblicità e nei media è spesso assimilato a oggetto di consumo. Questo alimenta un sessismo subdolo, spesso non dichiarato esplicitamente che tuttavia può avere delle importanti ripercussioni sulla salute psicologica dei singoli e sul più ampio contesto culturale e sociale.
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Erano gli anni ‘70 quando Erving Goffman (Gender adverstisements. Studies of Anthropology of Visual Communication, 3, 1976) fece i pionieristici studi sull’immagine del corpo femminile nella pubblicità rilevando quando le donne fossero sterotipalmente rappresentate come mogli o madri; angeli del focolare insomma escluse dalla vita lavorativa e sociale.
Oggi le donne sono in carriera e onnipresenti in contesti istituzionali e mondani eppure ancora discriminate e strumentalizzate nei media, spesso come oggetti sessuali, come corpi esibiti allo stesso modo in cui si presenta un prodotto al consumatore. È questa una delle molteplici espressioni del neosessismo (Tougas, Brown, Beaton e Jolie, 1995; Volpato, 2013): discriminazioni di genere che vivono “silenti” nella nostra società apparentemente emancipata di cui spesso non ci rendiamo neanche conto.
Il corpo femminile nelle pubblicità dagli anni ’50 ad oggi
Se ci soffermiamo a vedere alcune delle pubblicità degli anni ‘50 o ‘60 restiamo senz’altro sconcertati dai messaggi di esplicita discriminazione di genere che contenevano. “Chef fa di tutto, tranne cucinare. Ecco a cosa servono le mogli!” (Chef Kenwood – robot da cucina, 1961); è solo uno degli innumerevoli esempi: donne compiacenti, spesso poste in secondo piano dietro una figura maschile o accasciate a terra in una chiara posizione di subordinazione rispetto al maschio… I tempi, si dirà, per fortuna sono cambiati… Indubbiamente sì, questo non vuol dire però che non sussistano ancora oggi delle forme, magari differenti, di sessismo di cui anche le pubblicità e i media sono portatori.
Il corpo femminile viene oggi strumentalizzato non tanto per rimarcare il ruolo “domestico” e materno della donna, quanto per i suoi connotati sessuali: le donne sono immagini onnipresenti nelle reclame e nei format televisivi spesso a puro scopo “decorativo”, per accentuare l’appetibilità del prodotto.
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Non più una persona ma un oggetto di consumo
Assistiamo spesso, nelle immagini pubblicitarie, a quel fenomeno di parcellizzazione dell’immagine con il quale i media spesso presentano una parte del corpo femminile privata del volto per richiamare l’attenzione sul marchio di un determinato prodotto.
Questo meccanismo rende più facile l’oggettivazione sessuale, una particolare forma di oggettivazione dove l’immagine del corpo femminile viene esibita più o meno esplicitamente come richiamo sessuale. In un format televisivo, piuttosto che in un cartellone pubblicitario, non è la figura nella sua interezza, ma parti di questa, come bocca seni o natiche, a venir messi in primo piano rendendo quel corpo non più espressione di una “persona”, bensì un “oggetto” da poter porzionare, vendere, smembrare.
L’immagine femminile diventa oggetto di consumo (Volpato, 2013) assimilandosi essa stessa a una merce, un prodotto commerciale. E si tratta, si badi bene, di immagini ricondotte a stereotipi di bellezza femminile per lo più irrealistici: eternamente giovani, magre, e inverosimilmente patinate dal fotoritocco.
Conseguenze dell’oggettivazione del corpo femminile
La conseguenza che questi messaggi hanno, specie nella fasce d’età più giovani, non è da sottovalutare poiché l’esposizione ripetuta a modelli femminili oggettivati e sessualizzati può portare a interiorizzare questo “sguardo oggettivante” (Pacili, 2012) alimentando vergogna e insoddisfazione per il proprio corpo “reale” con tutti i rischi per la salute che questo può comportare in persone già individualmente vulnerabili per età anagrafica (adolescenti) o per disagi psicologici latenti.
I disturbi alimentari e dell’immagine corporea sono infatti in constante aumento, vedono il loro esordio in età sempre più precoci e riguardando sempre più spesso anche il sesso maschile. La cultura dell’immagine, del corpo come oggetto, non risparmia nessuno e sembra sempre più voler costringere tutti entro stereotipi “preconfezionati”: uomini e donne.
Una cultura dell’immagine fondata su stereotipi irrealistici
L’oggettivazione e la sessualizzazione del corpo femminile alimentano stereotipi e banalizzazioni della figura della donna che spesso finiscono con l’essere culturalmente accettati e quasi considerati “normali”: siamo abituati, assuefatti a certe immagini, non ci facciamo più caso, smettiamo di sorprenderci o di indignarci.
Eppure dovrebbero farci riflettere perché, ad esempio, l’oggettivazione – e soprattutto l’oggettivazione sessuale – è il medesimo meccanismo psicologico alla base di molti episodi di violenza di genere commessi dai cosiddetti “sex offenders”.
In ultimo, non per importanza, l’oggettivazione sterotipale e spersonalizzante del corpo femminile non è priva di conseguenze neanche sull’immagine maschile costretta spesso in stereotipi complementari (ricorderete tutti il famigerato “uomo che non deve chiedere mai”) altrettanto riduttivi e banalizzanti.
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