Psicologia del bello e del brutto: come si definiscono?

Il bello e il brutto sono parametri oggettivi o soggettivi? E chi li stabilisce? È bello ciò che è bello, o è bello ciò che piace?
Il corpo, amato, odiato, ammirato o ripudiato va ben oltre la sua materialità per dipingersi degli affetti con cui viene guardato. Vediamo cosa ci dice la psicolgia del bello, e del brutto

Psicologia del bello e del brutto: come si definiscono?

Cosa rende qualcuno o qualcosa bello o brutto? Sembra una domanda ineludibile nell’attuale società cibernetica e globalizzata dove l’immagine, gli stereotipi del corpo femminile e i media non fanno altro che diffondere modelli di bellezza impossibili, eternamente giovani e felici, che in sé hanno più del fotoritocco che dei corpi reali.

Ecco, che cos’è il bello? Una finzione? Un’illusione? Quello che ci piace vedere? Forse non c’è una risposta univoca e, forse, non c’è nessuna riposta soddisfacente se prima non ci interroghiamo sull’altra faccia della medaglia, quella che vorremmo non vedere e dimenticare, sto parlando proprio di lui: il brutto!

 

Il bello e il brutto nel volto degli umani

Alcuni studi sulla percezione e lo sviluppo cognitivo di primati umani e non umani sembrerebbero suggerire come alcune delle caratteristiche dei volti che comunemente associamo al bello siano parametri che a livello innato tendiamo a preferire nel rapportarci ai nostri simili.

Sarebbero quelle caratteristiche che rendono un volto adeguatamente ben proporzionato e simmetrico e che, ad un livello evolutivo piuttosto essenziale, aiuterebbero a distinguere gli individui più sani all’interno della specie. Perché il volto umano per disquisire del bello e del brutto?

Perché a livello innato siamo predisposti a riconoscere e a prediligere le conformazioni del volto dei nostri simili, lo si può apprezzare bene nei bambini molto piccoli che, ben prima di essere in grado di riconoscere i volti familiari da quelli estranei, mostrano una tendenza naturale a riconoscere e ad interagire con il volto degli adulti che incontrano e ad imitarne le espressioni facciali ed emozionali.

Tuttavia, come esseri umani giunti fin qui, siamo decisamente ben oltre il nostro patrimonio genetico e ereditario, le categorie di bello e brutto hanno anche e soprattutto valenze emozionali e simboliche psicologicamente molto più complesse di quelle che potevano assumere per i nostri antenati e progenitori delle caverne.

 

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Il brutto e il cattivo

Ma che cos’è il brutto? Ciò che è deforme, sgradevole alla vista, che attiva contemporaneamente un senso di attrazione e repulsione: non possiamo fare a meno di guardare ma, al tempo stesso, vogliamo allontanarcene il più possibile quasi a temere di esserne contaminati.

Alessandra Lemma nel riproporre una lettura psicoanalitica del racconto di Frankenstein parla proprio di questo: la creatura mostruosa protagonista del racconto di Mary Shelley è brutta per antonomasia, ma questa bruttezza è ciò che deriva dal rifiuto delle persone che ha intorno, dal sentirsi non amata e non guardata anzitutto dal suo creatore ed è questo a rendere il mostro un mostro, cioè assetato di vendetta contro tutti coloro che appartengono ad un genere umano dal quale si sente escluso e rifiutato.

In questo modo il brutto si identifica con il cattivo: una qualità fisica, la bruttezza, viene identificata con una qualità morale, la cattiveria (Lemma, A. Sotto la pelle, Cortina, 2011).

 

Il brutto che temiamo di riconoscere in noi stessi

Il racconto di Frankenstein non parla soltanto di un mondo di fantasia, ma racconta anche quanto avviene nella nostra psiche quando quotidianamente ci confrontiamo con qualcosa a cui attribuiamo caratteri di bruttezza e, quasi in automatico, di pericolosità o malvagità.

Pensiamo a tutte le discriminazioni delle minoranze che hanno segnato e segnano la storia dell’umanità: i disabili, gli stranieri, le persone con un altro colore della pelle, gli anziani. Il brutto non risiede più nel corpo fisico, ma nei significati emozionali che attribuiamo a ciò che è semplicemente “diverso” e che, in quanto tale, tradisce un’attesa, una nostra egocentrica quanto ingiustificata attesa, di ordine e prevedibilità delle cose.

Chi è disabile ci ricorda inconsciamente che il corpo non ha un solo modo di funzionare e che le limitazioni con cui dobbiamo confrontarci non siamo noi a deciderle; gli stranieri e i rifugiati ci rammentano quanto il nostro piccolo mondo occidentale non sia autarchico rispetto a tragedie umane e civili che oggi come domani potrebbero riguardarci tutti; gli anziani ci rammentano un tempo che passa, lasciando i segni sul corpo e che possiamo forse illuderci di ignorare ma non fermare.

In questi casi il brutto è funzionale a tenerci lontani, distinti da “loro”, chiunque essi siano, per rassicurarci su un “noi” : il questi casi il brutto va a simboleggiare le nostre paure perché ci stiamo proiettando ciò che tremiamo di riconoscere proprio in noi stessi.

 

Dismorfofobie e dintorni…

Anche il dismorfismo corporeo può in parte essere letto in questa ottica: in questo caso il brutto risiede nel corpo stesso della persona che isola una parte, un presunto difetto fisico facendone oggetto di ossessiva preoccupazione e di continuo attacco scotomizzandolo dal resto del corpo.

Anche nei disturbi alimentari avviene questo, in questi casi è sempre in atto una dismorfofobia che impedisce di avere una percezione e una valutazione realistica delle reali forme e dimensioni del corpo: un corpo di cui si pretende di avere il totale controllo contro i suoi fisiologici appetiti e desideri vissuti, questi, come minacciosi e potenzialmente distruttivi e incontrollabili.

La grossezza, la paura di ingrassare, quello che in questi casi rappresenta il brutto rappresenta tutte queste emozioni e questi desideri che si tende a dominare con il mito di una magrezza estrema, contraddistinta come il bello, alla ricerca dell’illusione rassicurante di poter controllare qualunque forma di appetito del corpo.

 

Il bello dove non te lo aspetti

In rete da un po’ di tempo vengono diffusi progetti fotografici che ritraggono le donne nella naturalità delle loro forme e delle varie età della vita senza nascondere i segni lasciati ad esempio dalla gravidanza o cicatrici lasciate da interventi chirurgici.

Un invito a mettere da parte il fotoritocco e a riconsiderare i nostri patinati quanto fasulli parametri di bello e di brutto? Chissà…in una società come la nostra dove tanto potere ha l’immagine, non possiamo che augurarcelo!

 

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