Obesità: malattia o questione di forza di volontà?
Di recente una votazione interna all’associazione dei medici americani ha deciso di dichiarare l’obesità una patologia a tutti gli effetti. Alla base di questo il preoccupante aumento del fenomeno soprattutto negli USA e l’urgenza di interventi risolutivi su larga scala. D’altra parte medicalizzare l’obesità alla stregua di una patologia virale deresponsabilizza i pazienti e non facilita la loro adesione a protocolli sanitari. Ma è semplicemente questione di forza di volontà?
I nostri cugini americani, si sa, non si perdono in chiacchiere: son gente pragmatica che esige soluzioni rapide e veloci in onore del miglior efficientismo made in USA. Allora perché non etichettare definitivamente l’obesità come una malattia? Se proprio non hai sufficiente forza di volontà per seguire una dieta, da ora in poi dovrai farlo perché “te lo ha ordinato il dottore”…
L’obesità nel rapporto medico-paziente
Vari autori in ambito psicosociologico e psicoanalitico (Guerra G., Psicosociologia dell'ospedale. La Nuova Italia Scientifica, 1992) si sono interessati agli aspetti psicologici del rapporto medico-paziente. Un rapporto che richiede al paziente una sostanziale passività nei confronti del medico a cui delega la risoluzione della sua “malattia” vissuta e concettualizzata come problema oggettivabile la cui risoluzione esclude totalmente la soggettività del paziente. Tale relazione si inserisce, come sottolineano gli Autori, nel più ampio contesto sociale della medicina moderna occidentale improntato ad una sorta di “obbligatorietà della cura” là dove si è tenuti a mantenersi in salute e quindi efficienti e produttivi, tanto che decidere di non curarsi o di scegliere strade non convenzionali dette scandalo.
Che conseguenze ha etichettare l’obesità come malattia?
Annettere l’obesità fra le malattie appare quindi un’operazione tutt’altro che neutra, ma dalle implicazioni sociali e culturali di una certa rilevanza. Medicalizzare l’obesità, come osserva Lionel Shriver parlando del suo ultimo libro “Big Brother”, deresponsabilizza totalmente la persona legittimandola a concepire, come dicevamo prima, il suo problema come “altro da sé” e a delegarlo nelle mani del medico o del chirurgo nonostante gli ultimi studi ci rivelano quanto incerti e imprevedibili siano gli esiti della chirurgia bariatrica in relazione alla condizioni psicologiche dei pazienti.
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Medicalizzare l’obesità mina la forza di volontà?
La Shriver parla di forza di volontà: etichettare l’obesità come malattia, afferma, mina la responsabilità personale del paziente in merito al suo stile di vita e alle sue scelte alimentari e quindi la sua forza di volontà per la quale non c’è attualmente medicina che tenga. Tuttavia il concetto di forza di volontà per l’obesità non sembra dei più utili là dove si voglia considerare la questione da un punto di vista psicologico.
La forza di volontà fa appello alle energie che possiamo richiamare alla coscienza per il perseguimento di un certo obiettivo, là dove esiste una motivazione molto alta e in equilibrio con altri aspetti del nostro essere. Se invece la motivazione, a dimagrire come a seguire una dieta, è solo parziale e in conflitto con altre, come in casi di obesità psicogena accade, è difficile ridurre la questione a semplice forza di volontà o a mera risoluzione sintomatologica.
Il cibo e il corpo sono investiti di significati simbolici e affettivi molto più profondi del desiderio di entrare in una taglia 42; oggettivare come “malattia” un fenomeno psicosomatico più che complesso appare un riduzionismo poco utile in un mondo dove un’industria alimentare schizofrenica ci sovraespone ad un’offerta di cibo continua e pervasiva. Questa, si dirà, è storia nota, ma a quanto pare non fa mai male ricordarla.
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