La geografia della nuova obesità
Lo stereotipo della campagna come luogo di vita sana ed equilibrata sembra destinato al capolinea. Secondo una recente indagine, infatti, l’obesità mondiale è in aumento, soprattutto nelle zone rurali ed extraurbane.
Lo rivela uno studio pubblicato su Nature: negli ultimi decenni è aumentato il tasso di obesità in tutto il mondo ma a contribuire a questo incremento sembra siano state soprattutto le zone rurali ed extraurbane, un tempo simbolo di uno stile di vita sano e slow, che oggi invece risulterebbero essere le aree dove gli effetti della globalizzazione e della diffusione massiva di una certa industria alimentare più si fanno sentire. Ne risulta un quadro complessivo piuttosto allarmante che dovrebbe indurci a riflettere.
Nuova obesità o nuove geografie alimentari?
Non è propriamente corretto dire che si tratti di una “nuova” obesità, quanto, piuttosto, del dilagare di un fenomeno già noto in nuove aree del pianeta.
Lo rivelano i risultati di uno studio, pubblicato su Nature, che, fra il 1985 e il 2017, ha monitorato gli indici di massa corporea di circa 112 milioni di abitanti delle zone urbane e rurali di 200 Paesi.
Ebbene, nell’arco di 33 anni, si è assistito a un incremento medio di 5- 6 chili a carico soprattutto delle persone che vivono nelle campagne. I motivi, secondo gli autori risiederebbero nei più bassi livelli di reddito e istruzione delle persone che spesso risiedono in queste aree, della relativa carenza di strutture sportive e, parallelamente, di un massivo aumento della diffusione di cibi industrializzati a basso costo e dal dubbio valore nutrizionale.
Nelle città invece, dove pure la diffusione dell’industria alimentare è ubiquitaria, le persone avrebbero però a disposizione più strumenti – culturali e materiali – per contrastarla, più alternative dietetiche, maggiori informazioni, più opzioni a disposizione per fare sport e maggiori risorse economiche per scegliere anche alternative alimentari più sane.
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I paradossi dell’industria alimentare
Quelle che un tempo erano aree rurali dove si consumavano prodotti locali sani e a basso costo si starebbero quindi depauperando gradualmente, soppiantate da modelli di produzione meccanizzati e industriali e soggette anch’esse alle leggi del mercato globale.
Il risultato sembra essere piuttosto paradossale: i prodotti “bio”, sani e più naturali, non costituirebbero più una prerogativa dell’alimentazione quotidiana delle persone delle campagne, ma sarebbero diventati una sorta di “beni di lusso” destinati ai negozi specializzati per chi vive in città e può permettersi una spesa alimentare piuttosto elevata.
In termini molto più drammatici – ma è un’amplificazione che esemplifica bene quali possano essere le dinamiche di questi fenomeni apparentemente paradossali – è ciò che è accaduto a seguito alla coltivazione e commercializzazione della quinoa. Si tratta di una pianta coltivata in Bolivia, Però, Equador e Cile fino a qualche anni fa per lo più sconosciuta fino agli anni ’80 quando si venne a conoscenza delle sue proprietà nutritive. Da allora, con tassi sempre crescenti, la quinoa è stata destinata al mercato industriale europeo e nord-americano diventando uno degli alimenti alternativi più in voga. Tutto ciò purtroppo non si è tradotto in un arricchimento delle popolazioni locali ma al contrario in un peggioramento delle loro condizioni alimentari: l’aumento della domanda da parte dei mercati esterni ha prodotto un aumento vertiginoso del prezzo della quinoa. Il risultato è alquanto paradossale perché le popolazioni indigene, che prima basavano la propria dieta su questa pianta, non possono più permettersela! Per non parlare del fatto che la coltivazione intensiva di quinoa – in mano a pochi agricoltori che ne detengono una sorta di monopolio – ha spinto le popolazioni andine a vivere in territori sempre più ristretti riducendo drasticamente le possibilità di allevamento dei lama che costituiscono una delle loro principali fonti di sostentamento economico. Forse questo non ha direttamente prodotto un aumento dell’obesità ma certamente ha reso più povere queste popolazioni (e dei bersagli potenzialmente più facili per i prodotti alimentari spazzatura e a basso costo).
Obesità un problema etico
L’aumento dell’obesità nelle aree rurali insomma dovrebbe allarmarci non solo come ulteriore conferma dell’epidemico aumento del sovrappeso fra tutte le fasce di popolazione, ma anche sui paradossi che l’economia globale e l’industria alimentare concorrono a definire su scala mondiale.
Come sosteneva Michael Pollan, siamo alle prese con un “moderno dilemma dell’onnivoro” di sempre più difficile soluzione. Da un lato aree del pianeta – dagli Stati Uniti a molti Paesi europei – dove l’offerta di cibo è cosi vasta e variegata da rendere difficile se non impossibile per l’essere umano individuare criteri certi per orientarsi in quella che sembra configurarsi come una vera e propria “babele alimentare”. Dall’altro paesi e zone extraurbane che, proprio a causa dell’industrializzazione e della globalizzazione dell’offerta alimentare nei paesi industrializzati, si stanno impoverendo (in piccolo, quello che accade alle popolazioni andine è accaduto anche ai piccoli coltivatori americani con la diffusione intensiva della coltura del mais: Pollan lo spiega magistralmente nel suo libro) diventando paradossalmente dei grandi consumatori di quei cibi industriali che sarebbero loro del tutto estranei.
A quanto pare, dunque, l’obesità non è (o non solo) un problema esclusivamente “privato” o “dietetico” o di salute pubblica; ma sembra vada a configurarsi, oggi, come un problema etico che chiama in causa un sistema di produzione e consumo a livello globale. Un problema che, e sembra ormai evidente, difficilmente potrà essere affrontato continuando a coltivare ognuno il proprio “orticello”…
“La vita breve e infelice di un manzo ingrassato a furia di mais in un allevamento intensivo rappresenta il trionfo supremo della logica industriale rispetto a quella evolutiva” (Michael Pollan, Il dilemma dell'onnivoro, Adelphi, Milano, 2014).
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