L'angoscia esistenziale tra psicologia e psichiatria
L’angoscia esistenziale ha riempito trattati filosofici e gli esistenzialisti ne hanno fatto un baluardo del loro pensiero. In seguito, gli psichiatri e gli psicologi hanno continuato a trattare il tema dell’angoscia esistenziale differenziandola dalla paura e dall’ansia o confondendola con esse. Dall’angoscia esistenziale si è passati all’esistenza dell’angoscia come sintomo nevrotico. Ma se l’angoscia fosse una vertigine del piacere?
Di angoscia esistenziale si parla da sempre e spesso se ne discute mettendola in associazione o in contrapposizione con l’ansia e con la paura, verso le quali, comunemente, l’angoscia viene rapportata in termini quantitativi, ovvero come un aumento o una diminuzione di sintomi e stati d’animo uguali, piuttosto che in termini qualitativi, ovvero come universi differenti che possono più o meno incontrarsi. In Rete si trova una gran confusione tra ansia e angoscia: vediamo di fare brevemente chiarezza.
Angoscia esistenziale: l’ansia e l’angoscia e la confusione che ci può essere
Nelle lingue latine esiste una differenza terminologica tra ansia e angoscia, differenza che si riflette anche in una categorizzazione di sintomatologie non sovrapponibili. La stessa cosa, invece, non c’è nelle lingue anglosassoni, in cui ansia e angoscia si sovrappongono e la cosa, in ambito clinico, ha creato non poca confusione.
Secondo Genovino Ferri (Psicopatologia e carattere), psichiatra e psicoanalista reichiano, la confusione tra ansia e angoscia si crea soprattutto quando si cerca di fare una differenziazione quantitativa, piuttosto che qualitativa, tra questi due elementi, cosa che non accade nel mondo filosofico dove l’angoscia era interpretata come esistenziale, ovvero propria dell’essere umano nel mondo.
Quando si cerca di definire l’angoscia mettendola in corrispondenza dell’ansia per poi considerarla una modalità espressiva differente di quest’ultima, si commette un errore di analisi. Mentre l’ansia, infatti, si palesa con uno stato di allarme più o meno prolungato nel tempo, più o meno circoscritto ad un evento e si manifesta con una disorganizzazione nel campo di coscienza dell’io, l’angoscia interessa livelli più profondi, più viscerali: il movimento energetico espansivo o dispersivo viene contratto e direzionato verso l’interno, in direzione centripeta.
L’angoscia esistenziale o nevrotica o come più si preferisce definirla, annienta lo spazio e il tempo, come in una dimensione psicotica: ciò che si destabilizza è il campo del sé, non dell’io.
Angoscia esistenziale: e se fosse angoscia del piacere?
Finché l’angoscia esistenziale veniva circoscritta ad un mero concetto filosofico ci si poteva inventare le soluzioni più intelligenti e al passo con i tempi per combatterla, alienarla, farla propria o cercarla perché illuminante. Angoscia di vivere o angoscia di morire? Questo è stato per molto tempo l’amletico dilemma che alimentava l'indagine sull'angoscia esistenziale. Poi è arrivato Freud e ha scombinato un po’ le carte in tavola: da lui in poi l’angoscia ha smesso di essere argomento di poeti e filosofi ed è diventato campo di indagine di barbuti psicologi ed occhialuti medici.
Dall’angoscia esistenziale si passa all’angoscia come perdita nel senso ampio del termine. Nel momento in cui l’angoscia è entrata nel mondo delle psicopatologie e delle nevrosi, ha perso un po’ del suo carattere fatalistico e nichilistico: il mondo psicologico ancora cerca soluzioni all’angoscia ed è ancora confuso con essa, tant’è che ancora confonde e sovrappone tale stato con quello ansioso. Forse l’angoscia, questo sentimento, stato, emozione o chicchessia, ci appartiene così tanto, così profondamente, che è troppo vicino a noi per riuscirlo a vedere chiaramente.
Ma perché ci è così vicino? Non è che forse aveva ragione quel Wilhelm Reich quando diceva che la morale coercitiva, i modelli educativi autoritari, i contesti repressivi generano nell’essere umano un corazzamento muscolare e caratteriale così potente da bloccare l’uomo nel suo movimento pulsativo vitale, tant’è che ogni volta che si ha una minima percezione di questo si cade nell’angoscia? Non è che forse questa angoscia è, in realtà, angoscia del piacere? Voi che dite: se, riprendendo Kiekegaard, l’angoscia fosse veramente "vertigine del piacere"?