Il cibo nella pubblicità: da prodotto a status symbol
Mangiamo con gli occhi, non solo con la pancia; utilizziamo il cibo anche come regolatore sociale e emozionale, non solo per i nostri puri e semplici bisogni biologici. Questo l’industria alimentare e la pubblicità lo sanno molto bene, tanto da rendere il cibo a volte un vero e proprio status symbol.
Se pensate che il segno visibile della condizione economico-sociale di una persona sia dato solo dall’automobile utilizzata o dalla meta delle vacanze estive forse vi sbagliate: oggi è soprattutto lui, il cibo, ad essere veicolato dalla pubblicità come vero e proprio status symbol.
“L’immagine ha il solo scopo di presentare il prodotto”: quante volte abbiamo letto questa didascalia sotto la fotografia di un prodotto alimentare? Mai avvertimento fu più azzeccato.
Cibo da pubblicità: buono da guardare
La soffice panna montata è in realtà schiuma da barba, i pancacke perfettamente impilati sotto una fontana di sciroppo d’acero sono in realtà dischi di cartone innaffiati da olio per motori, una generosa spruzzata di lacca per capelli rende luccicanti torte e pasticcini, qualche goccia di detersivo per i piatti assicura alla birra una schiuma densa e duratura e una sapiente dose di colla vinilica permette ai cereali della colazione di non affondare nella tazza del latte.
Non è tutto cibo quel che luccica insomma, ingegnosi espedienti degni di un vero e proprio trucco da illusionisti, consentono di fotografare e riprendere un “cibo” creato appositamente per colpire, invogliare, attrarre l’occhio dello spettatore, poco importa se di commestibile ormai ha poco e nulla. Una vera e propria industria di prodotti di consumo che con le necessità nutrizionali ha ormai ben poco a che fare. Sì perché ciò che viene commercializzato e venduto nelle pubblicità di prodotti alimentari è molto, molto altro…
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Il cibo nel linguaggio della pubblicità: creare bisogni e desideri
La pubblicità, che sia veicolata dai canali più tradizionali, come tv e rotocalchi, o che sia diffusa tramite web e social network rimane un mezzo comunicativo assolutamente peculiare. Se le campagne di informazione e sensibilizzazione alla corretta alimentazione, infatti, mirano soprattutto a persuadere il pubblico mediante spiegazioni e argomentazioni razionali (la via centrale della persuasione secondo il modello di Petty e Cacioppo, 1986). Il messaggio pubblicitario mira invece a bypassare le facoltà pensanti del destinatario, per arrivare direttamente alla “pancia”, cavalcando la via periferica della persuasione che sfrutta soprattutto le componenti emotive, il rinforzo del messaggio e l’esposizione ripetuta ad esso (Zajonc, 1968).
Quest’ultimo meccanismo, sebbene più dispendioso, è alla lunga più vantaggioso poiché il pubblico della pubblicità è un pubblico assolutamente più generalista di quello di una campagna di promozione della salute. La pubblicità, infatti, non si rivolge a coloro che adottano una certa abitudine e sono motivati/interessati a cambiare (si pensi alle campagne contro i fumo di sigaretta); ma mira alle persone che non hanno a priori alcun interesse a cambiare/provare un determinato prodotto (inclusi quelli alimentari) e che devono essere per questo motivo attratte, motivate, calamitate verso un’offerta che costruisca nuovi bisogni, desideri, attrazioni prima non esistenti (Conner e Armitage, 2002).
Dietro alla commercializzazione del cibo si muovono questi meccanismi di marketing. Un determinato alimento viene proposto e acquistato solo in minima parte per le proprie caratteristiche nutrizionali, in gran parte per altri benefit “immateriali” che tale prodotto veicola diventando un segno tangibile di una certa identità, di un dato stile di vita o di un’appartenenza sociale. Un vero e proprio status symbol insomma: la pubblicità del cibo, per influenzare gli atteggiamenti di consumo, deve offrire allo spettatore modelli (positivi) in cui identificarsi e/o riconoscersi.
Cibo come status symbol: modelli da imitare
Pensiamo all’atletico protagonista della storica reclame di un olio di semi, all’evoluzione degli scenari pubblicitari di grandi marchi di pasta che veicolavano i propri prodotti riunendo al completo intorno alla tavola imbandita la più tradizionale delle famiglie e che negli ultimi anni hanno rivisitato questi camei di calore domestico in funzione di padri single e famiglie ricomposte.
Risulta piuttosto chiaro come ogni messaggio pubblicitario svolga solo in parte una funzione strumentale – informando sulle caratteristiche intrinseche del prodotto – e in massima parte quella che è stata definita una funzione espressiva, comunicando anche un valore, un’identità sociale e, con essi, un’appartenenza al gruppo.
La pubblicità, nel presentarci un cibo, ci racconta più o meno implicitamente anche una storia su di esso e su di noi come potenziali consumatori. Ci dice quando e come quel cibo dovrebbe essere consumato, che tipi sono le persone che ne fanno uso (e di conseguenza che tipo di persone potremmo a nostra volta sentirci nell’acquistarlo), che vantaggi sociali comporta e a quali valori esso è associato.
Molti alimenti dietetici vengono ad esempio commercializzati tramite le immagini di atleti famosi (poco importa che campioni olimpici come Michael Phelps consumino invece una dieta di circa 12.000 calorie al giorno); altri alimenti supernutrienti e calorici vengono invece paradossalmente associati a immagini di modelle magre e ammiccanti (rendendo il cibo, insieme alla donna, un vero e proprio oggetto del desiderio); altri prodotti ancora vengono associati a un’identità green e rispettosa dell’ambiente (e spesso questo costituisce una parte delle motivazioni che spingono alcune persone a scegliere di mangiare bio).
Buono da pensare…
Difficile dire quanto la pubblicità svolga un ruolo primario nell’influenzare le scelte alimentari delle persone e quanto rispecchi invece tendenze e bisogni già esistenti negli individui e nella società.
Certo è che il messaggio pubblicitario contribuisce ad amplificare e veicolare influenze culturali e sociali che costruiscono significati intorno ai cibi che consumiamo rendendoli strumenti per costruire o consolidare una certa immagine di noi stessi.
Entrare in un ipermercato non è, da questo punto di vista, molto diverso dall’entrare in un negozio di abbigliamento: nello scegliere un prodotto scegliamo anche quale identità “indossare”, quel che è importante non è solo quanto sia nutrizionalmente valido ma anche come ci farà sentire mangiarlo (Rappoport, 2003). Mai come in questo caso risulta attuale la vecchia massima di Claude Lévi-Strauss (1962) secondo cui un cibo dev’essere non solo buono da magiare ma anche buono da pensare.
Attenzione dunque a recepire consapevolmente i messaggi pubblicitari e scegliere con la propria testa e non con quella di altri…
Bibliografia
Conner M. e Armitage C.J. (2002), La psicologia a tavola, Il Mulino.
Lévi-Strauss C., Le totémisme aujourd’hui, Paris, PUF, 1962; trad. it. Il totemismo oggi, Milano, Feltrinelli, 1964.
R.E.Petty, J.T. Cacioppo (1986), The elaboration likelyhood model of persuasion. Advances in Experimental Social Psychology, 19, 123-205.
Rappoport, L. (2003), Come mangiamo, Appetito, cultura e psicologia del cibo, Ponte Alle Grazie.
Zajonc, R.B. (1968), Attitudinal effects of mere exposure. Journal of Personality and Social Psychology, 9, pp. 1-27.
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Foto: Dean Drobot / 123rf.com