Diritto alla disconnessione, la spina nel fianco dello smart working
Se tramite lo smart working il lavoro si smaterializza, messaggi, email, videocall e chat prendono il sopravvento. Il rischio è che il cosiddetto lavoro “agile” invada la privacy e il tempo libero erodendo gli spazi “altri” della vita del lavoratore. I primi riferimenti legislativi in tal senso sono un inizio, ma basta questo a modificare una cultura aziendale?
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Lo si è chiamato il “paradosso nordico”: è un fenomeno osservato in alcuni paesi scandinavi che, nonostante siano più all’avanguardia di altri sulle leggi per la parità di genere, registrano fra i più alti tassi di violenza domestica e di genere…
Questo fenomeno è un esempio illuminante di come non sia sufficiente fare una legge per il progresso di una società umana, se a quelle norme non segue un parallelo processo di accomodamento e aggiornamento culturale e sociale.
Le disposizioni governative sullo smart working che prevedono il diritto alla disconnessione per i lavoratori da remoto è certamente un inizio, un segnale fondamentale e importante. Ma non va dimenticato che sono intere culture aziendali ad essere impostate sulla reperibilità “a cottimo” e lo era già prima dell’avvento della pandemia e dello smart working…
La normativa sullo smart working
Con la pandemia da SarsCoV-2 è improvvisamente aumentato il ricorso al lavoro da remoto, aziende, uffici e realtà che forse neanche avrebbero mai immaginato di adottarlo, si sono ritrovate nel giro di poche settimane a sperimentare questa modalità vedendo così smaterializzarsi le proprie attività nelle dimore private dei lavoratori.
Un cambiamento che ha colto molti contesti di sorpresa e impreparati non solo sul piano tecnico/organizzativo, ma anche su quello più relazionale e culturale. Le relazioni “faccia a faccia” sono state in breve tempo sostituite quasi totalmente con quelle virtuali, disponibili in ogni tempo e da ogni luogo e questo, unitamente alla maggior flessibilità dell’orario di lavoro, si è spesso tradotto in una pretesa di reperibilità costante.
Email, telefonate, conference call o messaggi in chat hanno invaso ogni ora e momento della giornata senza più divisione fra lavoro e vita privata. Fenomeno non certo solo italiano, ma comune a molti altri paesi europei in merito al quale le varie legislazioni si sono mosse fino ad ora in ordine sparso. È dello scorso 21 Gennaio una risoluzione del Parlamento Europeo che invita gli stati membri a riconoscere, all’interno dei contratti di lavoro, il diritto alla disconnessione. In Italia questo diritto è stato riconosciuto in parte dalla legge 81/2017 sullo smart working, e più recentemente con il DL n. 30 del 13 marzo 2021.
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La definizione di diritto alla disconnessione
Per diritto alla disconnessione si intende il diritto del lavoratore che operi in smart working o in modalità di lavoro agile, a non essere reperibile/non rispondere a richieste di contatto via mail, telefono o social dopo la conclusione dell’orario di lavoro o nei giorni festivi, di riposo o malattia.
Questo per salvaguardare una sana distinzione tra vita lavorativa e vita privata che, non dobbiamo dimenticarci, rappresenta una delle maggiori conquiste dei diritti dei lavoratori dell’epoca moderna. Il fatto che esista un contratto che stabilisce un monte ore massimo e un corrispettivo salario a cui il lavoratore ha diritto non era qualcosa di scontato per i lavoratori dei secoli scorsi. Ci sono voluti anni di lotte, scioperi, proteste a volte anche violente e costituzioni sindacali affinché tutti i lavoratori fossero riconosciuti come persone portatrici di diritti e non come proprietà alla mercé dei loro “padroni”.
Ai giorni nostri, in modalità insospettatamente “agili”, rischiamo di vivere il nostro “paradosso digitale”: se le richieste di contatti si prolungano oltre l’orario lavorativo, la vita privata dei lavoratori rischia di essere man mano nuovamente erosa, messa da parte, subordinata a qualunque tipologia di esigenza o pretesa aziendale. Che la troppa modernità stia rischiando di farci tornare indietro di secoli? Anche questo sembra esserci fra i rischi dello smart working.
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Il lavoro agile e la società "liquida"
Le leggi sono solo il primo, indispensabile passo, ma non bastano dicevamo… Non bastano perché, ben prima dell’avvento della pandemia e della “smaterializzazione” della postazione da ufficio, molte culture lavorative erano già improntate alla richiesta/pretesa (implicita o esplicita) che i lavoratori/collaboratori dovessero essere disponibili al di là dei tempi e modi teoricamente concordati.
E questo può valere tanto per una grande multinazionale fondata sulla competitività più spregiudicata, quanto per una piccola cooperativa che fonda il suo funzionamento su valori volontaristici e familisti dove tutti sono sempre a disposizione di tutti. Questo perché viviamo in un’epoca, quella che Bauman definì “liquida”, dove sembra non esserci più spazio per l’attesa, dove tutto – a cominciare dalle richieste dei clienti alle offerte della concorrenza – sembra viaggiare a velocità massima.
Se non si risponde entro subito ci sarà qualcuno disposto a farlo al posto nostro e questo chiude molte realtà lavorative in una corsa obbligata che vede erodersi spazi personali di vita, ma anche spazi di pensiero. È un affanno per una massimizzazione solo apparente della produttività che rischia invece di avere più effetti collaterali dei problemi che vorrebbe risolvere.
La pandemia e il ricorso al lavoro agile potrebbero essere invece delle occasioni preziose per fare formazione nei luoghi di lavoro e invertire produttivamente la rotta.
Smartworking, quando serve dire "no"
Nel mentre ognuno dalla propria ottica individuale può provare a fare qualcosa: spesso non ci si accorge di essere inconsapevolmente complici di un sistema che non prevede disconnessioni. Magari siamo proprio noi i primi a rispondere a ogni messaggio anche nelle ore serali o a telefonare al collega nei momenti meno opportuni senza renderci neanche conto che l’orario lavorativo è passato da un pezzo. Sono automatismi che si instaurano anche inconsapevolmente e che, nel momento in cui si vorrebbe che gli altri rispettassero i nostri spazi privati, rischiano di inviare messaggi confusi. Iniziamo ad inviare messaggi chiari: iniziamo dando l’esempio.
Dire “no” significa tracciare un limite, significa non essere disponibili oltre quel limite, ma anche impegnarsi ad esserci, e al meglio, entro di esso. Significa rimarcare un impegno preso col proprio lavoro e rinnovarlo ogni giorno, non dedicandogli spazi residuali o casuali del proprio tempo libero (chi risponderà di una disattenzione di un lavoratore interpellato mentre fa il bagno ai figli o sta a cena al ristorante?).
Dentro il campo di gioco la palla è un pallone da calcio che deve essere tirato con determinate regole e permette di raggiungere certi obiettivi. Fuori dal campo è solo una palla…