Quando il precariato influenza la stabilità emotiva
“Che lavoro fai? Dove lavori?” Nell’era della “modernità liquida” può non essere affatto scontato rispondere a queste domande.. Il precariato è ormai la regola piuttosto che l’eccezione. A risentirne non è solo il portafogli, ma l’identità sociale e il benessere psicologico.
Che il precariato sia una delle peggiori e più diffuse forme di stress dell’epoca attuale non è un mistero per nessuno..
Ad incidere negativamente non è soltanto l’instabilità della condizione economica, ma anche le conseguenze psicologiche che tale condizione comporta in termini di ansia, stress e instabilità a livello identitario e sociale.
Alcuni ricercatori hanno indagato meglio il fenomeno arrivando a concluderne che il precariato, come condizione lavorativa cronica, incide negativamente sulla salute psicologica tanto quanto la vera e propria disoccupazione.
In altre parole: aver perso il lavoro o lavorare nella costante paura di perderlo sarebbero due condizioni equiparabili in termini di danno emotivo e instabilità identitaria.
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Precariato e instabilità identitaria
Diversi studi hanno evidenziato ormai da tempo come la perdita del lavoro incida negativamente sullo stato di salute psicologica delle persone.
Il lavoro infatti definisce il posto e il ruolo che ognuno di noi ha a livello sociale; è ciò che ci fa percepire di poter contribuire utilmente e proficuamente non solo al nostro personale benessere, ma anche a quello della società in cui viviamo.
Per i più fortunati, inoltre, il lavoro può rappresentare anche una fonte di soddisfazione e autorealizzazione esistenziale a cui dedicarsi con passione e dedizione.
Tutto questo incide a vari livelli sulla nostra autostima, il nostro senso di autoefficacia e, più in generale, sul nostro senso di identità (ovvero sulla consapevolezza di chi siamo noi, di quali siano quegli elementi stabili del nostro essere persone che si mantengono nel tempo, nonostante i mutamenti dinamici che la psiche e la vita di tutti noi attraversano).
Per questo perdere il lavoro, specie quando non dipende dalla propria volontà e avviene in tarda età, può essere fonte di vergogna, confusione o svalutazione di sé.
E’ come se, in un certo senso, si perdesse il proprio posto nel mondo, almeno fino a quando non si trova un nuovo impiego… Sebbene, sostengono alcune ricerche, l’esperienza di aver fatto parte, per un periodo più o meno lungo, della categoria dei “disoccupati” può rivelarsi una ferita dura da rimarginare.
A quanto pare, dopo un periodo di inoccupazione, la soddisfazione percepita verso il nuovo lavoro può essere comunque inferiore a quella dell’impiego precedente che sembrerebbe fosse percepito più “stabile” e rassicurante, almeno in termini identitari.
Il precariato danneggia quanto la disoccupazione?
Una recente ricerca aggiunge un tassello interessante a questo scenario: il precariato sarebbe una condizione psicologicamente non molto diversa dalla disoccupazione.
Eva Selenko e colleghi hanno studiato il benessere psicologico e la percezione lavorativa di un gruppo di 400 impiegati britannici nell’arco del 2014. Le persone reclutate, aventi un’età media di 45 anni, erano suddivise fra operai e lavoratori “in carriera”.
Trasversalmente alle due categorie, coloro che risultavano avere percezione di un’elevata instabilità lavorativa (gli esponenti del cosiddetto “precariato”) erano coloro che mostravano minor sentimento di appartenenza alla propria categoria professionale, una peggiore performance lavorativa e un minor benessere personale. In altre parole, il precariato e l’instabilità del ruolo lavorativo rendevano queste persone vulnerabili agli stessi effetti psicologici del licenziamento avvicinando la loro condizione più a quella di coloro che avevano effettivamente perso il lavoro, che a quella di coloro che erano impiegati stabilmente.
L’era del precariato è anche l’epoca del narcisismo?
Non stupisce quindi che diversi Autori, in sociologia come in psicoanalisi, individuino nel narcisismo il problema della nostra epoca.
L’uomo post moderno sembra, in questo senso, colui che corre dietro ad apparenze vuote proprio perché non sa chi è: non ci sono più istituzioni e tradizioni forti che scelgano per lui, c’è solo una società fortemente individualista, competitiva, dove ognuno “si fa da sé”, ma dove avvengono continui mutamenti. Sembra che l’unica arma possibile sia quella di “abituarsi a non abituarsi” …
Lo spiegava molto bene Bauman:
“Il successo nella vita di uomini e donne postmoderni dipende dalla velocità con cui riescono a sbarazzarsi di vecchie abitudini piuttosto che da quella con cui ne acquisiscono di nuove. La cosa migliore è non preoccuparsi di costruire modelli; il tipo di abitudine acquisito con l'apprendimento terziario consiste nel fare a meno delle abitudini.” (Modus vivendi, Laterza, 2008).
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