Perché un corso di public speaking?
Nell'era della comunicazione sempre più persone si dimostrano incapaci di comunicare. Un corso di public speaking può migliorare le nostre capacità espressive? Lo abbiamo chiesto ad Alberto Castelvecchi
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Da linguista e filologo a editore e poi docente alla scuola di scrittura creativa Luiss Writing School: queste sono alcune delle professioni svolte da Alberto Castelvecchi, oggi anche docente del corso di public speaking alla LUISS Guido Carli di Roma.
Attività apparentemente diverse ma in realtà legate da un’unica passione, quella per la parola.
Siamo nell’era della comunicazione, eppure sempre più persone si dimostrano incapaci di comunicare. Non è questo un paradosso? E come può un corso di public speaking migliorare la capacità espressiva delle persone?
La Tv ci ha abituato a un modello di comunicazione passiva, "subita" stando seduti in poltrona, che è ancora molto forte. Con Internet si sta affermando un modello di comunicazione interattiva, "partecipata", che in parte migliora le cose. Ma c'è un punto critico: quando comunichiamo su Internet di solito scriviamo, e ce ne stiamo seduti in silenzio davanti a uno schermo. Il corpo, il nostro veicolo comunicativo ed emozionale primario, resta il grande assente in questa fase storica della comunicazione.
Ed ecco che entrano in gioco discipline come il public speaking e la comunicazione efficace: qui il modello di comunicazione è diverso, perché imparo a comunicare con gli occhi, col tono della voce, con i tanti segnali della mia fisicità. E imparo a mettermi in relazione con le emozioni degli altri, in loro presenza. Spesso dico ai miei allievi: "Guardate il bagnato degli occhi di chi vi ascolta". Niente, come l'interazione nello spazio fisico del public speaking, è così efficace per entrare in contatto con emozioni profonde.
Non c’è il rischio che, dando a tutti le stesse ‘regole’, si finisca con l’omologare la comunicazione dei partecipanti senza avere riguardo per gli aspetti più originali che caratterizzano, oltre alla personalità, anche il modo di comunicare che ciascuno ha?
Spesso all'inizio di un corso faccio una dichiarazione di principio un po' paradossale: "Il public speaking non esiste, esistono i public speakers". Ci sono, è vero, alcune regole universali, che vanno rispettate con scrupolo, ma se dobbiamo muovere le mani, o guardarci negli occhi, ogni esperienza sarà unica e irripetibile.
Ognuno ha un suo "modo" di comunicare in pubblico. Io cerco solo di smorzare, levigare certe punte estreme e controproducenti: se sei lento ti aiuto a trovare un po' di ritmo, non pretenderò mai che tu diventi un velocista. Se fai poche pause ti insegnerò ad ascoltare la bellezza del silenzio e a usarla tra una frase e l'altra, ma non potrò mai trasformarti in un frate trappista!
È vero che le parole comunicano molto meno di quanto si crede?
Nella comunicazione naturale, in presenza di un altro essere umano, le parole ci arrivano immerse in un flusso di stimoli corporei, visivi, uditivi. Sono importanti quanto i gesti o gli sguardi, ma devono diventare esse stesse "segnali" fisici. La corporeità e gli stimoli visivi, in molti casi, prendono il sopravvento nel determinare se un oratore ci piace o no, se lo troviamo convincente o noioso.
In che cosa ritiene di essere migliorato chi ha partecipato ad uno dei suoi corsi?
Già in 5-6 ore di corso si vedono dei cambiamenti significativi, perché attraverso le emozioni del corpo la nostra mente apprende in modo assai rapido. Le persone imparano a usare meglio i gesti, capiscono l'importanza di uno stile diretto e "visuale", cominciano ad apprezzare l'impatto emozionale del contatto col pubblico e dello sguardo.
Ma la cosa più importante è quella che io chiamo la "valigetta degli attrezzi": un corso di poche ore non ti renderà magari un grande public speaker, ma ti fornirà degli strumenti per continuare a crescere da solo, autonomamente. E questo darà risultati e miglioramenti apprezzabili per molti anni a venire.
Perché parlare in pubblico fa così paura?
Perché sentiamo tutti gli occhi addosso e abbiamo paura del giudizio degli altri. Eppure gli occhi sono stati il nostro primo veicolo di contatto, quando eravamo neonati, con i genitori e con il mondo. Se guardi un bambino di 6 mesi negli occhi, ti senti attraversato dall'intensità del suo sguardo: non è schermato, non si sottrae, in qualche modo "beve informazione" da ogni singolo movimento del tuo viso. Poi, crescendo, abbiamo rimosso questa capacità di dare e ricevere emozioni con gli occhi.
Io cerco di far recuperare almeno in parte questa capacità, che è rimasta come anchilosata, rattrappita in un angolo della nostra anima. E poi insegno che in realtà il pubblico non è lì per giudicarci, ma per sentire ciò che abbiamo da dire e trovare nuovi stimoli. Se siamo autentici, e diretti, il giudizio degli altri ci spaventerà sempre di meno.
È corretto dire che la comunicazione è sicuramente inefficace quando non si ha il dono dell’ “empatia”?
Sì, perché il modello "postale" della comunicazione, Mittente ---> Destinatario, non serve a spiegare il public speaking. In realtà sia lo speaker sia gli ascoltatori "lavorano insieme" per dare senso alla comunicazione, tramite lo scambio emozionale e il feed-back continuo.
L'empatia si avverte fisicamente, come se muovendoci in una grande vasca sentissimo che noi nuotiamo insieme agli altri. Dico spesso che in un evento pubblico lo speaker deve usare l'aria come se fosse acqua: se muovo una mano correttamente e dolcemente, anche le persone in fondo alla sala si sentiranno fisicamente toccate dall'onda, dal flusso emozionale della parola. L'empatia è un "dono" che abbiamo tutti: anche le cattive emozioni, purtroppo, sono empatiche, nel senso che noi e gli altri esseri umani siamo emozionalmente inter-dipendenti. Bisogna allora indirizzare, con pazienza e fiducia, questo dono dell'empatia verso i "good feelings". Magari sembrerò un po' hippy, ma penso che negli anni Sessanta avessero ragione, quando parlavano di "buone vibrazioni".
Perché secondo lei, nel percorso di formazione di tanti giovani, scuola e università danno così poca importanza allo sviluppo delle abilità comunicative? Pensano, erroneamente, che padroneggiare la lingua sia già sufficiente per essere dei buoni comunicatori?
Le scuole e le università europee sono ancora molto dominate da un modello "mentale" della comunicazione. Ora, è vero che i latini dicevano "rem tene, verba sequentur" ('sii padrone della materia, e le parole verranno da sé'). Ma è anche vero che, nella retorica antica, si studiavano meticolosamente l'espressione corporea, il tono di voce e lo sguardo, e si dava molta più fiducia alla parola viva, incarnata.
Per Cicerone, oltre alla Elocutio, era molto importante la Actio, la concreta capacità di tenere la scena. Del grande repertorio della cultura classica noi ci siamo tenuti solo la parte libresca e astratta, dimenticando che persino la parola Ginnasio (gymnasion) si riferiva a una "palestra", dove il corpo e la mente crescevano in armonia, insieme.
Dovremmo ricordarci che tutto, dai poemi omerici all'astronomia, dall'etica ai miti alle leggi alla filosofia di Socrate, è nato conversando la notte intorno al fuoco, o passeggiando e riflettendo ad alta voce con amici e compagni di viaggio.
Ecco, un corso di public speaking non è un insieme di trucchi ed espedienti per fare bella figura, ma un'esperienza che ci insegna a stare con gli altri e a crescere.