Razzismo negli stadi: chi siamo “fuori dal coro”?
Il razzismo negli stadi è un fenomeno a cui è difficile rispondere senza alimentare escalation di provocazioni e violenza. Partiamo da un gesto apparentemente semplice, come quello del giocatore brasiliano Dani Alves che ha fatto invece il giro del mondo.
Come rispondere al razzismo? Hanno fatto scalpore e in poche ore anche il giro del mondo le immagini del calciatore brasiliano Dani Alves che risponde al lancio di una banana proveniente dagli spalti sbucciandola e mangiandola con disinvoltura prima di tirare un calcio d’angolo.
Perché, triste ma vero, gli episodi di razzismo negli stadi come quello descritto non sono nuovi né insoliti, tanto che Alves sembra averci ormai “fatto il callo” e non farsi apparentemente turbare più di tanto da questo tipo di provocazioni.
Rispondere al razzismo sui media
Ma è ancora più interessante l’eco mediatica che la risposta al razzismo di Alves ha avuto grazie a internet e tv. In poche ore la banana, appannaggio di provocazioni razziste tristemente note anche nel nostro paese, specie in ambito politico, è diventata simbolo di lotta a qualunque forma di razzismo o discriminazione.
Maurizio Crozza le ha addirittura distribuite dal palco del suo show televisivo, Renzi e Prandelli hanno imitato il gesto del calciatore in segno di solidarietà, insomma l’ennesima provocazione razzista proveniente dagli spalti di uno stadio di calcio è stata ribaltata divenendo con umorismo simbolo di lotta al razzismo.
Le tifoserie e la mentalità di gruppo
Ma come mai gli episodi di razzismo sono così frequenti dagli spalti degli stadi? Le cose sarebbero difficilmente andate allo stesso modo se l’autore del gesto si fosse ritrovato ad avere a che fare col calciatore brasiliano vis a vis mentre era da solo invece che insieme alla sua tifoseria sugli spalti.
Episodi di violenza e razzismo così espliciti emergono più facilmente negli stadi perché la tifoseria – come qualunque altro gruppo - conferisce un’identità sociale (Tajfel, 1978) e un’appartenenza condivisa che può “proteggere” e deresponsabilizzare il singolo.
Tutto questo a svantaggio, naturalmente, di coloro che tifano perché condividono, prima ancora che la passione per uno sport, i valori e le regole su cui lo sport stesso si fonda.
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Disimpegno morale e razzismo
La diffusione della responsabilità d’altra parte rientra in quei meccanismi che lo psicologo Albert Bandura definì di disimpegno morale: quelle modalità attraverso le quali le persone possono arrivare a compiere o a tollerare atti di violenza contrari a quelle comuni regole morali e di convivenza civile che normalmente rispettano.
Fra questi, un altro meccanismo altrettanto importante nei casi di razzismo negli stadi sembra quello di deumanizzazione della vittima ovvero di mancanza di empatia nei confronti dell’altro nel momento in cui si arrivi a non considerarlo pienamente un “umano” al proprio pari.
Un recente studio italiano pubblicato su Current Biology evidenzia come, in coloro che mostrano atteggiamenti xenofobi, a livello neuronale non si attivino quei circuiti preposti alla condivisione delle emozioni altrui quando, questi “altri”, sono persone di diversa etnia o colore della pelle verso le quali si nutrono pregiudizi razzisti.
Il razzismo è “il disagio di chi scopre la diversità e se ne inquieta” scrive Guido Barbujani nel suo libro Sono razzista, ma sto cercando di smettere (Laterza, 2008) edito per la collana dei libri del Festival della Mente. A prescindere dagli stereotipi in cui trova rassicurante identificarsi, ognuno è “diverso da tutti gli altri” in qualcosa; è riconoscersi responsabili di ciò che si è “fuori dal coro” che consente di riconoscere e rispettare anche l’umanità e l’unicità dell’altro.
Assumersi la responsabilità di comportamenti e scelte “fuori dal coro” comporterebbe dei costi emotivi che la mente tenderebbe ad evitare. Ma qual è il legame tra conformismo ed emozioni negative?