La giornata internazionale per l'eliminazione della discriminazione razziale

Il 21 Marzo ricorre, come ogni anno dal 1966, la Giornata internazionale contro la discriminazione razziale. Mai come oggi, in epoca di guerre, emergenze umanitarie e flussi migratori questo tema risulta attuale. Possiamo dire che l’umanità non ha confini? Purtroppo non è sempre vero.

La giornata internazionale per l'eliminazione della discriminazione razziale

"Immaginate di vedere gli stranieri derelitti, coi bambini in spalla, e i poveri bagagli, arrancare verso i porti e le coste in cerca di trasporto".

Queste parole, che suonano così drammaticamente attuali, risalgono a più 400 anni fa nel manoscritto Sir Thomas More di William Shakespeare, un dramma mai rappresentato e arrivato ai giorni nostri in un’unica copia. Questi versi sono riferiti ai Francesi protestanti che in epoca elisabettiana chiedevano asilo in Inghilterra.

Ma non possono non far pensare ai flussi migratori che dalla Siria e dal Nord Africa raggiungono oggi l’Europa per fuggire da guerre e da una crisi umanitaria senza precedenti. Ora, come allora, si alzano moti di protesta contro questo fenomeno e si parla di chiusura delle frontiere.

La giornata internazionale contro la discriminazione razziale oggi ci ricorda quanto siamo paradossalmente disposti a riconoscere diverse gradazioni dell’umano, diversi livelli di dignità alle persone. A seconda che siano vissute come appartenenti al “nostro” territorio, sistema di valori, mondo culturale o che siano percepiti come “estranei”, “diversi” e, per questo, minacciosi. Davvero l’umanità non ha confini? Ci piacerebbe poterlo credere.

 

Il migrante e la discriminazione razziale

"Se il Re vi bandisse dall’Inghilterra dov’è che andreste? (…) Che sia in Francia o Fiandra, in qualsiasi provincia germanica, in Spagna o Portogallo, anzi, ovunque non rassomigli all'Inghilterra, orbene, vi troverete per forza a essere degli stranieri (…) Vi piacerebbe allora trovare una nazione d'indole così barbara che, in un'esplosione di violenza e di odio, non vi conceda un posto sulla terra, affili i suoi detestabili coltelli contro le vostre gole, vi scacciasse come cani, quasi non foste figli e opera di Dio, o che gli elementi non siano tutti appropriati al vostro benessere, ma appartenessero solo a loro? Che ne pensereste di essere trattati così? Questo è ciò che provano gli stranieri. Questa è la vostra disumanità".

Così continua Shakespeare sollecitando il lettore ad immedesimarsi nella figura del migrante, a riconoscerne tratti che sono anche in noi stessi.

Parlare di discriminazione razziale, in un’epoca in cui si parla di chiusura delle frontiere, di centri di accoglienza che sembrano lager, dei naufragi che tragicamente avvengono all’ordine del giorno a largo delle coste di Lampedusa obbliga a rivolgerci all’umano che è in noi e a quella stessa umanità e diritto alla vita e alla dignità che dovremmo riconoscere nell’altro.

 

Il razzismo: basi sociali e fisiologiche

 

Se gli occhi (chiusi) di un bambino non ci fanno più effetto…

“Non facciamoci ricattare dagli occhi dei bambini” questi non sono i versi di un poeta, ma piuttosto le raccapriccianti parole di Frauke Petry, la rivale politica di Angela Merkel in Germania.

Era appena settembre del 2015 quando la foto di Aylan Kurdi, il bimbo immortalato senza vita sulla spiaggia di Bodrum, faceva il giro del mondo scuotendo (almeno apparentemente) le coscienze di tutti: potenti e non potenti della Terra.

Oggi immagini come quelle sembra possano, a distanza di pochi mesi, venir strumentalizzate per essere trasformate nel loro contrario: una minaccia per noi che, seduti comodamente (almeno per ora) dall’altra parte della frontiera dovremmo sentircene spaventati e indotti ad alzare muri a difesa di un’umanità che si riconosce tale sono “a casa nostra”.

Il significato etimologico della parola “razza” rimanda da un lato al concetto di “linea”, “nastro”; dall’altro a quello di “radice”, “origine”… Da un lato una demarcazione, un confine posto (arbitrariamente) a dividere, separare, creare differenze; dall’altro le radici, le origini che legano una persona, prima ancora che alla propria terra, alla propria appartenenza al genere umano.

 
Disumanizzando l’altro abbiamo già perso noi stessi

Oggettivare, spersonalizzare l’altro per disconoscerne le sue caratteristiche umane, per renderlo ancora più distante da noi è un meccanismo psicologico noto da tempo.

Lo psicologo Albert Bandura lo aveva studiato per tentare di spiegare le motivazioni alla base di alcuni fenomeni di violenza di gruppo. Questo meccanismo è tuttavia utile anche per interrogarsi su alcuni fenomeni di discriminazione razziale.

Se disconosciamo all’altro caratteristiche umane, disconosciamo che egli possa avere bisogni e sentimenti analoghi ai nostri: le sue sofferenze non ci suscitano empatia né identificazione e potremmo dire o fare cose anche in evidente contraddizione con i codici morali che osserviamo ordinariamente.

Se poi questo meccanismo è esteso a livello sociale e coadiuvato da un’assuefazione a immagini violente a cui siamo terribilmente ormai anestetizzati il gioco è fatto: chi perde le propria umanità alla fine siamo proprio noi che siamo al di qua di quella frontiea.

 

Razzismo e intelligenza, esiste davvero un legame?