Ricercatori sempre più precari
La condizione legata alla precarietà non risparmia i ricercatori e nel contempo apre una riflessione sul concetto di crescita, oltre che sull'importanza che cultura e studio devono rivestire nel superamento della crisi nel nostro Paese
Secondo recenti stime diffuse dall'Adi –Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani – l'85% dei ricercatori italiani si troverà presto a dover cambiare lavoro. Il motivo? Il drastico ridimensionamento delle borse di dottorato a un anno dall'entrata in vigore della riforma Gelmini. E' forse questo uno dei dati più rilevanti che emerge dall'indagine. In particolare, negli ultimi quattro anni le 23 università monitorate sono passate da 5.553 borse di dottorato a 4.112, con una riduzione del 25,9%, cui deve aggiungersi una certa discrezionalità nell'imposizione delle tasse che creerebbe uno squilibrio (o discriminazione) entro la stessa popolazione dei ricercatori. Al di là di questo, però, è chiaro che s'impone sull'argomento una riflessione attenta, soprattutto in merito all'importanza che questo Paese ritiene di dover ancora attribuire al lavoro di tanti studiosi che, grazie anche alla formazione ricevuta in Italia, sono poi in grado di restituire alla società intera i frutti delle competenze acquisite in duri anni di studio, dimostrando così che il sapere accademico è ben capace di travalicare i confini dell'università per impattare realmente sulla vita quotidiana delle persone. Può forse allora partire dalla valorizzazione di questo capitale umano la crescita del Paese, se si considera che proprio attraverso il circolo virtuoso che ne deriverebbe, altre occasioni di sviluppo si presenterebbero, a cominciare dalle chance lavorative in favore di ulteriori giovani talenti. In quest'ottica, va da sé che il tema della produttività, fin troppo legato alla retorica economica, finisce invece con l'essere intimamente connesso a quello solo all'apparenza più lontano della cultura.
La fuga all'estero dei riceratori
In uno scenario simile, la conseguenza più immediata è la ben nota fuga dei cervelli. Ed è inutile dire che tutto dipende dalla prospettiva a partire dalla quale si guardano le cose. Il termine fuga, infatti, all'interno del dibattito, ha certamente una connotazione negativa. Tuttavia va detto che è proprio la strada della ricerca in sé a imporre necessariamente un allontanamento dal proprio Paese. La normalità di questo stato di cose, pertanto, non dovrebbe costituire motivo di allarmismo inutile. E chissà che forse non si renda addirittura improbabile un ritorno a casa definitivo per chi opta per una simile carriera. C'è infine da considerare il livello di innovazione presente nel nostro Paese. Siamo davvero sicuri che esso sia tale da permettere ai ricercatori di ritorno dall'estero di trovare qui in Italia un ambiente "all'altezza" delle competenze acquisite nel corso degli anni o dei mesi spesi oltre i confini?
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Fonte immagine: US Army Africa