Le esequie di Priebke fra umano e disumano
I disordini, gli scontri e le violenze che hanno costretto a rendere segrete le esequie del criminale nazista Erich Priebke ci ricordano da un lato quanto quella della Shoah sia una ferita storica ancora drammaticamente e giustamente aperta. Dall’altro fanno riflettere su quanto la “banalità del male” non sia un “incidente di percorso”, ma un pericolo sempre possibile per l’umanità a meno di non opporre all’orrore sacrilego, disonorante e disumanizzante di quei crimini il rispetto per il diritto alla vita e alla morte.
“... ci sono crimini che gli uomini non possono né punire né perdonare. Quando l'impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile, che non poteva più essere compreso e spiegato coi malvagi motivi dell'interesse egoistico, dell'avidità, dell'invidia, del risentimento; e che quindi la collera non poteva vendicare, la carità sopportare, l'amicizia perdonare, la legge punire.”
Priebke e la banalità del male
Queste parole sono state scritte da Hannah Arendt nel suo saggio La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (Feltrinelli, Milano, 2000) in cui raccolse i resoconti del processo di Adolf Eichmann giudicato a Gerusalemme e condannato a morte nel 1961. Eichmann e altri esecutori materiali della Shoah, come lo stesso Priebke, non agirono sotto la spinta di un’indole maligna, non erano mostri disumani, ma uomini psicologicamente normali e spaventosamente umani che, molto più “banalmente”, si limitarono ad eseguire degli ordini. Là dove alla disumanizzazione delle vittime si aggancia quella dei carnefici, meri esecutori materiali di ordini impartiti da altri, di cui altri hanno la responsabilità, senza che loro stessi abbiano contatto con la reale portata delle proprie azioni, il male è il male assoluto, è il male che mina l’esistenza stessa della specie umana tutta, perché è un male di cui uomini qualunque possono rendersi artefici, senza la necessità di intenzioni o perversioni fuori dall’ordinario. La banalità del male citata dalla Arendt è questo ed è questo che fa più paura perché ci ricorda quanto facilmente quel male possa albergare fra noi, quanto le circostanze che lo hanno reso possibile possano ripetersi.
L’esperimento Milgram
Diversi esperimenti condotti in psicologia negli anni ‘60 e ‘70 hanno evidenziato quanto possa essere “banalmente” semplice istigare persone assolutamente normali e comuni al male verso i propri simili sotto l’influenza di un’autorità. Uno dei più famosi fu l’esperimento condotto dallo psicologo sociale Stanley Milgram nello stesso 1961 appena tre mesi dopo l’inizio del processo di Eichmann a Gerusalemme. Ai soggetti (persone di varia età ed estrazione sociale reclutate tramite i canali più disparati) vennero date istruzioni precise: somministrare scosse elettriche sempre più forti ogni volta che alcuni studenti (in realtà collaboratori di Milgram che simulavano di ricevere le scosse) sbagliavano una prova. Queste istruzioni erano impartite e incoraggiate ripetutamente sotto forma di ordini e ingiunzioni dello sperimentatore nonostante le “vittime” al crescere delle scosse mostrassero evidenti segni di sofferenza, gridassero e implorassero pietà. Il risultato sconcertante fu che la maggior parte dei soggetti continuò ad obbedire agli ordini pur protestando e andando contro i propri principi etici e morali. La situazione ricreata sperimentalmente aveva indotto quello che Milgram definì uno stato eteronomico e cioè quella condizione psicologica in cui sotto la pressione all’obbedienza a un’autorità le persone possono sospendere l’esercizio di condotte di azione e di pensiero autonome per eseguire automaticamente ordini di cui non si ritengono responsabili ma meri esecutori strumentali.
Un altro esperimento sullo stesso genere fu quello fatto da Ron Jones con i suoi studenti della Cubberley High School di Palo Alto a cui è ispirato il film “L’onda” (Dennis Gansel, 2008).
La Shoah e i crimini contro l’umanità
Questo è, secondo la tesi della Arendt, il peggior crimine contro l’umanità: arrivare ad essere un esecutore inconsapevole delle azioni di qualcun altro. I crimini perpetrati con al Shoah sono crimini commessi non soltanto nei confronti del popolo ebraico, ma di tutta l’umanità la cui stessa esistenza è legata alla diversità di etnie, religioni e culture, al diritto di chiunque di esistere in quanto diverso dall’altro. E’ questo il senso che secondo la Arendt avrebbe dovuto avere la condanna di Eichmann, che venne invece condannato secondo la legislazione dello stato di Israele.
Le esequie di Priebke
Le stesse argomentazioni sarebbero tornate utili probabilmente per ispirare un po' più di saggezza e lungimiranza nella triste e vergognosa vicenda delle esequie di Priebke: né l’Italia, né l’Argentina né la stessa Germania se ne volevano assumere l’onere, i funerali sono stati interrotti dagli scontri scoppiati ad Albano Laziale, calci alla bara, botte, violenze, come se i crimini di cui Priebke è stato artefice non riuscissero a non suscitare e ispirare ulteriori violenze, ulteriori scempi, a perpetrare una violazione sacrilega di qualunque valore connesso alla vita e alla morte.
La rabbia, la vendetta, l’odio legati alla volontà di disonorare il cadavere e di negare le esequie di Priebke sono umane, profondamente intrise di umanità, di quella stessa umanità che viene narrata nell’Iliade dove Achille fa scempio del cadavere di Ettore, autore dell’uccisione del suo amico Patroclo: la violenza e il disonore del cadavere del nemico era del tutto contemplata nel codice d’onore omerico (Cornacchia, M.R., L’impossibile perdono del nemico nella letteratura classica).
E’ possibile fare giustizia?
Ma proprio questa vendetta così profondamente e culturalmente “umana” resta inscindibilmente legata ai fatti, alle vittime, agli ebrei. Se Priebke è il mostro che ha ucciso gli ebrei, che ha partecipato al programmato sterminio di una razza, gli ebrei stessi, i parenti delle vittime e chiunque sia vicino alla loro causa, non possono far altro che provare giustamente e comprensibilmente rancore, odio, vendetta.
Ma se Priebke è anche simbolo del male assoluto, il cui ricordo balza e irrompe nelle nostre memoria in occasione della morte di uno dei suoi attuatori, i crimini commessi da lui e da quelli come lui non sono crimini contro gli Ebrei, sono crimini contro l’umanità, contro la vita, contro il diritto ad essere liberi, diversi e autonomi. Sono crimini che, come scriveva la Arendt, non si possono né punire né perdonare, a meno che non intendiamo il perdono come ciò che consente di “ristabilire l’equilibrio sul piano umano e divino” (Valgiglio, 1956, 2, p. 102). Ed è in tal senso che le esequie di Priebke, invece che essere umanamente e, vien da dire, “banalmente” bersaglio di violenza e vendetta costringendo alla fine a dar luogo alla sepoltura in un non-luogo, in un luogo segreto, per evitare il perpetrarsi di altre di quelle violenze, sarebbero potute essere un’occasione per ristabilire, appunto, un equilibrio. La Shoah ha perpetrato, attraverso i suoi crimini, un sacrilegio sistematico contro la vita e la morte, contro il diritto ad esistere dell’umanità tutta, in senso sia fisico che psicologico disumanizzando e disconoscendo il diritto all’esistenza, alla “nuda vita” come direbbe Agamben, di coloro che erano percepiti come “diversi” e perpetrando la stessa spersonalizzazione nelle morti senza nome e senza esequie che nei campi di sterminio venivano eseguite.
L’umana memoria collettiva
Riconoscere al nemico il diritto a morire e ad avere degna sepoltura non equivale necessariamente a dimenticare ciò che è stato commesso, men che mai a perdonare; poteva essere invece un modo per non dimenticare, per ricordare che quanto successo può ripetersi di nuovo e albergare ancora fra noi a meno che non opponiamo alla “banalità” di quel male, opposti valori di rispetto e compostezza per una dimensione di vita e morte che ci trascende e a cui solo possiamo demandare il giudizio di quei crimini che noi non siamo in grado né di perdonare né di punire. Probabilmente non siamo umanamente in possesso di un perdono tanto grande, né di una punizione tanto giusta; siamo tuttavia esseri umani dotati di memoria collettiva. Le esequie del “banale” assassino Priebke potevano essere un’occasione per celebrare, con un rito collettivo composto e silenzioso, quale qualunque funerale dovrebbe essere, la necessità di non dimenticare.