Mediazione empowerment familiare
Il presente lavoro mira a mettere in evidenza i presupposti e le caratteristiche fondamentali della mediazione familiare, in quanto modello di intervento che assume e favorisce un processo di empowerment, coniugando il self-empowerment, il family-empowerment e il social-empowerment. Un intervento che fa da “ponte” tra ciò che attiene alla sfera del privato (il versante delle relazioni e delle scelte libere e responsabili) e ciò che appartiene alla sfera del pubblico (il versante dei diritti doveri regolamentati giuridicamente).
Il sociologo Zygmunt Bauman ha descritto meglio di altri le caratteristiche delle società plurali e complesse contemporanee, sintetizzandole nel termine "modernità liquida", con il quale egli sottolinea come le certezze che caratterizzano la modernità siano oggi meno solide, e come i riferimenti che accompagnavano fino a qualche decennio fa la formazione e la vita degli individui abbiano lasciato sempre più spazio a una pluralità sostanziale di riferimenti.
La modernità liquida (o "società del rischio" o "dell'incertezza") è caratterizzata soprattutto da: frammentazione dei legami sociali; crescente individualizzazione; crisi della dinamica identità/alterità; motivi di instabilità e insicurezza; povertà diffuse; perdita di fiducia verso la politica; spinta alla competitività a tutti i livelli.
Si tratta - osserva Bauman - di una situazione in cui scompare l'agorà, cioè lo spazio di confronto con gli altri sui problemi individuali e comuni, e in cui le paure, le preoccupazioni e i problemi individuali (la dimensione privata) faticano a trasformarsi in progetti condivisi (la dimensione pubblica). Definendo liquida l’attuale modernità Bauman intende, in prima istanza, evidenziare che la pressione dell’individualizzazione sta via via usurando gli argini costituiti da strutture alle quali in passato era delegato il compito di fondare stabilità e riconoscimento reciproco. In breve: il baricentro viene a trovarsi sempre più prossimo all’individuo e sempre più distante dalla società.
Numerose sono infatti le riflessioni sul tema della “solitudine”, o delle “solitudini”, Chiara Sità parla della solitudine come condizione individuale che può assumere accezioni diverse:”essa può avere i contorni della disperazione, ma può anche costituire un’esigenza vitale in un contesto sociale massificato e vociante; ancora la solitudine può concretizzare l’unico spazio possibile per la riflessione, il dialogo interiore, l’esperienza spirituale”.
Esauritasi una fase di “sicurezza cosmica” per via del tramonto di una certa visione del mondo, l’uomo ritorna ad essere così preda dell’incertezza e dell’angoscia. E’ quanto accade ai giorni nostri, in cui la caduta axiologica, seguita alle trasformazioni della “modernità liquida”, ha richiamato l’attenzione intorno al pericolo di un nichilismo totale. Si avverte quindi l’esigenza di pensare all’uomo come un essere di fini, aperto alle sue possibilità, al di là dei condizionamenti che tendono a limitarlo, il quale per il proprio compimento necessita di entrare in contatto con gli altri uomini nel mondo.
Dal rischio di isolamento individuale, dalla valutazione del singolo come essere ripiegato su sé stesso, monade incapace di aprirsi all’esterno è necessario invece prendere in esame il “sistema uomo” riferendolo in maniera costante al “sistema mondo”, perciò valutando i due termini nella reciprocità del loro rapporto, attraverso il quale ciascuno di essi acquista ulteriore stabilità e precisazione. Abbiamo bisogno, in altri termini, di una nuova elaborazione teorica, idonea a ricostituire un positivo legame tra uomo e società e natura, senza sacrificare l’originalità individuale o l’oggettività ambientale, e a promuovere il benessere e l’integrità della persona e del mondo.
L’uomo contemporaneo ha un rapporto con il mondo circostante sempre più fragile e incerto, aumenta l’insicurezza circa la sua capacità progettuale e di azione, con profonde e dirette ripercussioni sulla vita familiare e comunitaria. A causa dell’aumentata dispersione sociale e della generalizzata crisi relazionale, sempre più spesso gli operatori dell’ambito sociale e psico-educativo incontrano situazioni di disagio, richieste di aiuto, bisogni di orientamento. Assistiamo, così, a una sorta di paradosso: nella nostra società individualista aumenta il bisogno di aiuto e di relazione tra le persone. “Nel nostro mondo sempre più globalizzato viviamo tutti in una condizione di interdipendenza e, di conseguenza, nessuno di noi può essere padrone del proprio destino. Ci sono compiti con cui ogni singolo individuo si confronta, ma che non possono essere affrontati e superati individualmente”.
Ogni persona, nel corso della propria storia e del proprio sviluppo, può vivere situazioni di sofferenza e di difficoltà, non necessariamente legate a fenomeni patologici ma piuttosto causate da eventi critici, dovuti alla transizione da una fase all’altra del ciclo vitale o ad avvenimenti imprevisti, che mettono a dura prova le capacità di adattamento del soggetto.
Fondamentalmente si tratta di vedere l’essere umano non più attraverso descrizioni relative ai suoi limiti, debolezze e deficienze né attraverso valutazioni diagnostiche che accolgono solo i comportamenti inadeguati interpretati in termini di sintomi di malattia.
In campo sociale, psico-pedagogico è in atto una rivoluzione grazie alla quale si mettono in dubbio la rappresentatività e l’utilità stessa di questo tipo di descrizioni. Questa nuova prospettiva ci porta a mettere l’accento sull’incredibile «resilienza», capacità di sopravvivenza e di adattamento dell’essere umano, e quindi sulle sue risorse ed il suo potenziale. Tenendo conto anche di limiti e difficoltà ma soprattutto di risorse e possibilità abbiamo una descrizione della persona e della sua situazione più ottimistica e aperta a possibilità. Questo ci spinge nella relazione di aiuto a stimolare nella persona la ricerca delle proprie soluzioni piuttosto che dirigerla verso le nostre, a cercare l’empowerment delle persone piuttosto che sostituirci a loro in modo assistenziale.
In questa ottica risulta funzionale parlare di scelte possibili, di obiettivi e strategie risolutive, stimolando così un senso di autodeterminazione piuttosto che di passività e di dipendenza. Far così emergere la convinzione che ogni persona è un «esperto» della propria vita e di conseguenza il principale artefice per riuscire a superare la sua situazione di impasse.
Si tratta di conseguenza, di fornire strumenti per poter vivere in questo scenario, per potersi cioè abituare non a uno o più contesti precisi, ma al continuo cambiamento dei contesti; di costruire strumenti, percorsi ed esperienze di agorà, cioè di confronto e cittadinanza diffusa sul territorio; di favorire processi di costruzioni di identità complesse e aperte, capaci di gestire la continua dinamica con l'alterità attraverso cui ogni identità si costruisce e si mantiene.
In base a queste brevi considerazioni, posso quindi pensare la mediazione familiare, quale intervento innovativo che risponde pienamente alle nuove frontiere delle relazioni d’aiuto che si prefiggono lo sviluppo nell’individuo della responsabilità di scelta, lumeggiare quello che a mio avviso può essere considerato il principio cardine, vero e proprio concetto fondante della cultura della mediazione in generale e del lavoro di mediazione familiare in particolare: il principio della competenza. Esso si basa sulla convinzione che “le persone sono competenti riguardo alle decisioni della propria vita, almeno fino a prova contraria”.
La mediazione familiare si presenta come una metodologia “pilota” e “alternativa” dal momento che, a tutt’oggi, sono ancora piuttosto carenti le strutture di aiuto in grado di rispondere ai bisogni sociali connessi alla dissociazione dei nuclei familiari, è considerata la forma elettiva di intervento per la regolazione delle controversie e della conflittualità nella separazione e nel divorzio. Al di là delle differenze tra i diversi approcci teorici viene comunque da tutti considerata come finalità principale dell’intervento di mediazione la restituzione ai genitori della delega di decisione sulla loro storia familiare, che in presenza di figli non si esaurisce con la loro separazione, aiutandoli a prendere coscienza di ciò che ancora li unisce piuttosto che accentuare ciò che li divide e ad operare insieme per far sì che ai figli venga assicurata la possibilità di usufruire di ciò che ambedue possono dare loro.
Essa si può definire altresì una pratica operativa per la prevenzione del disagio psicologico dei figli e degli adulti coinvolti; questa dimensione preventiva ne definisce meglio la più ampia valenza sociale e va compresa entro quel principio di promozione del benessere e, più in particolare, della tutela dei soggetti “a rischio” che sono i punti forti di un efficace agire in senso psico-sociale.
Aiutandomi con le parole di Rogers, concludo pensando a me e alla mediazione familiare come “un modo di essere centrati-sulla persona […], è qualcosa in cui uno cresce. E’ un sistema di valori […] che enfatizza la dignità dell’individuo, l’importanza della scelta personale, la significatività della responsabilità, la gioia della creatività. E’ una filosofia costruita sull’orientamento democratico, che da pieni poteri all’individuo”.