Altruismo innato? Psicologia delle condotte d'aiuto
Esporsi in prima persona per prestare aiuto o trincerarsi dietro il velo dell’indifferenza non sono scelte dettate soltanto da principi etici o da altruismo, ma processi decisionali complessi che risentono di valori culturali, fattori situazionali, percezione di sé e delle proprie motivazioni
Prestare aiuto o dimostrare altruismo verso chi è in difficoltà può sembrare un gesto naturale e scontato, diversi avvenimenti purtroppo sembrano smentirlo. Sono tristemente noti, infatti, numerosi episodi di cronaca di mancato soccorso come quello di Kitty Genovese, una giovane donna assassinata in piena notte in un sobborgo newyorchese nel 1964, il cui evidente bisogno di aiuto non sollecitò alcun intervento da parte delle persone presenti. Sembra paradossale eppure, come dimostrato da numerosi studi sperimentali, essere testimoni di situazioni di pericolo insieme ad altri può addirittura ridurre la prontezza a prestare aiuto anziché sollecitare altruismo verso le vittime (Bibb Latanè e John Darley, 1976).
Altruismo ed egoismo: caratteri di personalità o risposte all’ambiente?
Non esistono in realtà individui dotati di altruismo “in assoluto”; la psicologia sociale sottolinea come i comportamenti d’aiuto dettati dall’altruismo siano piuttosto il risultato dell’interazione tra le caratteristiche personali di ogni individuo e le specifiche situazioni di vita che egli si trova ad affrontare. Ciò vuol dire che le persone possono essere guidate dall’altruismo e fornire aiuto in un determinato contesto ma non in un altro. Assistere insieme ad altri ad episodi di violenza o di pericolo può paradossalmente inibire tutti dal prestare aiuto, perché nessuno si ritiene l’unico responsabile (diffusione della responsabilità); perché le circostanze possono essere ambigue e creare incertezza e perché si teme, intervenendo per primi, che la propria condotta d’aiuto possa essere giudicata dagli altri inappropriata. Inoltre per decidere di aiutare gli altri è necessario rendersi conto della situazione di pericolo e stabilire se e quali condotte d’aiuto attivare in base alla percezione delle proprie possibilità.
L'altruismo: le motivazioni dei comportamenti prosociali
I comportamenti prosociali, infatti, muovono da motivazioni come lo stesso altruismo, l’empatia, la reciprocità, l’innalzamento dell’autostima e la gratitudine, ma comportano anche un costo in termini di stress, tempo, pericolo per sé stessi: si fornisce aiuto solo se la percezione dei benefici provocati dal proprio altruismo supera i costi ad esso associati. Come osserva Serge Moscovici (1994), esibire oggi comportamenti prosociali dettati da altruismo sembra quasi “controtendenza” in una società fondata sul primato dell’interesse e del successo individuale, in cui è l’egoismo la norma culturale dominante.
In questo senso, molti sono gli studi avviati negli ultimi anni su programmi per educare alla prosocialità orientati a sviluppare comportamenti prosociali e condotte d’aiuto soprattutto nelle scuole dove sono sempre più frequenti episodi di bullismo messi in atto da alcuni ragazzi, ma spesso tacitamente tollerati da tutti i compagni che raramente intervengono o denunciano la situazione. I comportamenti prosociali e le condotte d’aiuto in genere, per venir adottate stabilmente, necessitano pertanto di un più ampio mutamento culturale che sostenga una reciprocità positiva nelle relazioni interpersonali quale salvaguardia dell’identità, sviluppo e creatività di tutti i soggetti implicati (Roche, 1991).
Fonte immagine: katerha